Storia dell’emancipazione femminile in Italia – In Italia la lotta per l’uguaglianza tra uomini e donne comincia in ritardo rispetto al resto d’Europa.
Se guardiamo all’istruzione scopriamo che solo nel 1874 è permessa formalmente l’iscrizione delle donne ai licei e alle università. E quando più tardi, alcune donne riescono a conseguire un titolo di studio, non sono ammesse all’esercizio delle libere professioni.
Risale al 1902 la prima legge a tutela delle lavoratrici, con cui si stabilisce il divieto dei lavori sotterranei per le donne; si fissa l’orario di lavoro giornaliero in dodici ore al massimo; si proibisce il lavoro notturno alle ragazze di età inferiore ai 15 anni.
Durante la prima guerra mondiale (1914-1918) le donne cominciano a diventare protagoniste della propria vita. In questo periodo infatti vengono chiamate a ricoprire i posti lasciati vuoti dagli uomini partiti per il fronte: per la prima volta le donne sperimentano l’indipendenza economica e l’autonomia personale.
Alla fine del conflitto sono però rimandate tra le mura domestiche per lasciare spazio ai reduci, ma l’esperienza acquisita consentirà loro di condurre la battaglia per l’emancipazione delle donne con più forza.
Non è casuale nel 1919 l’approvazione della legge che abolisce l’«autorizzazione maritale» necessaria fino ad allora per qualsiasi atto, come aprire un conto in banca. La stessa legge ammette le donne all’esercizio di tutte le professioni e di gran parte degli impieghi pubblici.
Durante il fascismo le donne tornano ad essere considerate unicamente nel ruolo di mogli e di madri. Lo Stato cerca di ostacolarle in tutte le attività che possano allontanarle dal progetto di sposarsi presto e di mettere al mondo tanti figli.
È loro vietato di insegnare lettere classiche, storia e filosofia nelle classi superiori; le bambine per frequentare le scuole medie devono pagare tasse molto più alte rispetto ai coetanei maschi; nel 1927 i salari femminili sono dimezzati per decreto.
Con la seconda guerra mondiale (1940-1945), il lavoro femminile è di nuovo preso in considerazione. Le donne incominciano ad essere assunte come tranviere, postine, impiegate; poi assunte alla Fiat e via via in tutte la fabbriche belliche e civili. Ma l’Italia uscita dal secondo conflitto mondiale torna a essere bigotta. Man mano che gli uomini rientrano, le operaie e le impiegate sono licenziate.
Eppure di lì a poco è compiuto un passo importante: nel 1946 le donne italiane votano per la prima volta (per un approfondimento leggi Il Suffragio Universale nella Storia clicca qui). E l’approvazione della Costituzione italiana (22 dicembre 1947) segna, almeno sulla carta, un ulteriore passo verso l’uguaglianza tra uomini e donne.
L’articolo 29 della Costituzione sancisce infatti la «piena uguaglianza morale e giuridica dei coniugi» (sebbene per rendere concreta tale affermazione bisognerà aspettare la riforma del diritto di famiglia del 1975).
L’articolo 37 stabilisce per la donna lavoratrice gli stessi diritti e la stessa retribuzione che, a parità di mansioni, spettano all’uomo. Anche questa norma è rimasta a lungo inattuata e le differenze nei trattamenti salariali hanno continuato a esistere sul presupposto che il lavoro femminile non può assicurare il medesimo rendimento di quello maschile.
La realizzazione pratica del principio di parità fra i uomini e donne è stata ottenuta dopo anni di dure lotte da parte delle donne.
Solo nel 1963 è approvata la legge che le ammette ai concorsi per entrare in magistratura e nel 1965 compaiono i primi giudici donna. Sempre nel 1963 si vota la legge che vieta il licenziamento della donna a causa di matrimonio.
Comunque è negli anni settanta del Novecento che la storia dell’emancipazione femminile in Italia vive il periodo più felice.
Nel 1970 è approvata la legge che introduce il divorzio nel nostro ordinamento. Sarà sottoposta a referendum abrogativo nel 1974, ma la maggioranza degli italiani si dichiarerà contraria alla sua soppressione.
Nel 1975 è varata la riforma del diritto di famiglia con cui si cancellano tutte quelle disposizioni che attribuiscono una posizione dominante al marito sia nella gestione familiare sia nell’educazione dei figli. È infatti stabilito che i coniugi debbano partecipare in posizione paritaria alla conduzione della vita familiare.
Cambiano anche le norme sui figli naturali, quelli cioè nati fuori dal matrimonio: la donna non sposata che ha un figlio può riconoscerlo e non è più costretta a farlo registrare come «figlio di padre ignoto».
Nel 1978 è approvata la legge sull’aborto, che consente alla donna l’interruzione volontaria della gravidanza, mettendo fine alla pratica degli aborti clandestini.
La legge è stata sottoposta a referendum popolare nel 1981, ma, come nel caso del divorzio, la maggioranza degli italiani ha scelto di non cancellarla.
È del 1981 anche l’abolizione del cosiddetto delitto d’onore, in base al quale chi uccideva la moglie adultera beneficiava di una fortissima riduzione della pena.
Non dimentichiamo poi i cambiamenti nel mondo dell’istruzione e del lavoro: sempre più presenze femminili nelle banche, negli ospedali, nei servizi sociali, nelle scuole, nelle università, nei giornali e in tutti gli ambiti tradizionalmente maschili.
Le discriminazioni nei confronti della donna non possono certamente dirsi cancellate. Anche laddove sembra che l’emancipazione si sia realizzata, se si osserva più attentamente l’organizzazione familiare e sociale, si scopre che le discriminazioni nei confronti della donna sono ben lontane dal dirsi superate.