Spettacoli teatrali nell’antica Roma: riassunto di Letteratura latina
Spettacoli teatrali nell’antica Roma: i ludi scaenici
I primi spettacoli teatrali nell’antica Roma erano legati alle feste religiose (ludi scaenici), cioè le feste celebrate in onore delle divinità.
Le feste religiose più importanti erano i ludi Romani, in onore di Giove, celebrati nel Circo Massimo nel mese di settembre; i ludi plebeii, sempre in onore di Giove, ma celebrati a novembre nel Circo Flaminio; i ludi Apollinares, a luglio, in onore di Apollo; i ludi Megalenses, in aprile, in onore di Cibele, la Magna Mater; i ludi Florales, sempre in aprile, in onore di Flora.
Oltre che in queste occasioni ufficiali, gli spettacoli teatrali nell’antica Roma erano rappresentati anche in occasione di funerali, anniversari, trionfi ecc.
Spettacoli teatrali nell’antica Roma: generi e autori
Poiché il teatro aveva avuto origine in Grecia, le opere rappresentate a Roma erano per lo più di soggetto e ambientazione greca. Si distinguevano la tragedia, la commedia e il mimo.
Scrissero tragedie Livio Andronico e Gneo Nevio.
Del primo ci sono noti otto titoli di tragedie, del secondo sei. Sembra che a volte i due abbiano scritto emulandosi a vicenda, come dimostrano taluni titoli identici.
Entrambi attingevano alla letteratura greca e adattavano opere straniere, senza preoccuparsi dell’originalità del loro prodotto.
Tuttavia, a fianco delle tragedie di ambientazione greca (dette cothurnatae, dal nome degli alti calzari degli attori greci) si produssero presto anche tragedie di ambientazione romana (dette praetextae, dal nome della toga praetesta indossata di magistrati romani).
Altri tragediografi furono Quinto Ennio e suo nipote Pacuvio.
Ennio adattò tutte o quasi le sue tragedie da corrispondenti opere greche.
Un posto di rilievo nella tragedia spetta a Lucio Accio, di cui conosciamo 45 titoli di cothurnatae e 2 di praetextae. Si distinse per l’efficace caratterizzazione dei personaggi, specie quelli negativi e malvagi.
In linea di principio, i tragediografi latini di questo periodo si caratterizzarono rispetto ai Greci per l’accentuazione degli elementi patetici e melodrammatici, oltreché della carica espressiva dei personaggi. Un’altra differenza rispetto alle tragedie greche è l’assenza del coro.
La commedia ebbe un grande sviluppo tra la seconda metà del III secolo a.C. e l’inizio del I secolo a.C. Dopo questa data, non vennero scritte altre commedie, ma continuarono a essere rappresentate quelle esistenti.
Anche qui si ebbero opere di imitazione e ambientazione greca, dette palliate (dal nome del mantello greco pallio), e altre, un poco più recenti, di ambientazione invece decisamente romana, dette togate.
Già Livio Andronico aveva scritto qualche commedia, ma senza molto successo. L’autore più famoso fu Tito Maccio Plauto.
Anche Gneo Nevio, oltre alle tragedie, scrisse commedie.
Altro autore destinato a raggiungere la massima fama fu Cecilio Stazio, che a giudizio di Cicerone fu il sommo commediografo romano.
Da non dimenticare Publio Terenzio Afro. Questi scrisse sei palliate con lo stesso procedimento di Plauto, cioè attingendo e contaminando dalla letteratura greca, ma con esiti artistici diversissimi da Plauto e con un successo molto minore. Terenzio fu amato nel Medioevo e anche oltre, ma riscosse sempre un favore maggiore tra gli eruditi che non il pubblico.
A partire dalla seconda metà del II secolo a.C. si diffuse decisamente la togata, mentre la palliata declinava. Nella togata, l’ambientazione è romana e vi è più realismo. Tra i personaggi, il ruolo di servo passa in secondo piano a favore di quello dei giovani innamorati, che adesso sono preferibilmente liberi. Maggiore spazio c’è anche per i problemi familiari ed economici.
Il mimo giunse a Roma verso la fine del III secolo a.C. probabilmente dalla Magna Grecia. A lungo, questo genere di rappresentazione consistette semplicemente in farse che ritraevano scene della vita quotidiana con personaggi fissi: il marito credulone, la moglie infedele ecc.
Scopo del mimo era divertire e basta. La comicità era quindi talvolta sboccata, ma ai Romani questi spettacoli piacevano.
I mimi recitavano senza maschere e tra di loro c’erano anche donne, che spesso si esibivano in apprezzati spogliarelli. Si dovette attendere l’età cesariana perché fossero redatti testi per mimi di più alto valore letterario.
Spettacoli teatrali nell’antica Roma: l’organizzazione
Gli spettacoli teatrali nell’antica Roma avevano luogo all’aperto, di giorno.
La scenografia solitamente era costituita da una via o da una piazzetta, delimitata da un fondale con dipinte le facciate di alcune case, ciascuna con una porta che permetteva agli attori di entrare in scena direttamente dalle case stesse.
Convenzionalmente, le due entrate laterali simboleggiavano da sinistra la provenienza dal porto, da destra la provenienza dal foro.
Spesso sul proscenio c’era un altare, in genere dedicato al dio Apollo.
I costi dell’allestimento erano cospicui. Oltre all’acquisto del copione, infatti, occorreva mettere in conto la retribuzione del capocomico e degli attori; l’affitto degli arredi e dei costumi di scena; il compenso per chi componeva ed eseguiva le musiche.
Le rappresentazioni teatrali alternavano quindi parti recitate (deverbia) a parti cantate (cantica), accompagnate dal flauto: il suonatore stava sul palcoscenico insieme agli attori.
Spettacoli teatrali nell’antica Roma: i grandi attori dell’antichità
Gli attori (histriones o scaenici) erano soltanto uomini, solitamente schiavi o liberti.
In genere gli attori erano riuniti in compagnie (catervae o greges), dirette da un capocomico o regista (dominus gregis), che il più delle volte era anche il primo attore.
Il dominus gregis acquistava il testo teatrale dallo scrittore e lo sottoponeva, per approvazione ai magistrati. Se il testo non era censurato, era finanziata la messa in scena. L’autore, venduta l’opera, perdeva i diritti sul copione, che apparteneva al capocomico o allo stato.
Gli attori recitavano indossando il pallium (mantellina greca, corta, di lana) o la toga, a seconda che l’ambientazione fosse greca o italica; gli attori tragici calzavano i cothurni (stivaletti alti con stringhe), mentre quelli comici i socci, sandali bassi, già tipici della commedia greca.
L’uso della maschera era d’obbligo nelle tragedie, probabilmente anche per le commedie. Essa era impiegata sia in Grecia sia in Etruria; consentiva veloci cambiamenti di ruolo per lo stesso attore (quando interpretava più parti) e la rappresentazione di vicende comiche basate sull’identità di due personaggi (quando uno era il sosia di un altro).
Erano usate anche parrucche colorate (nere per i giovani, bianche per i vecchi, rosse per gli schiavi).
Tra i grandi attori dell’antichità, di quelli che hanno fatto la storia del teatro a Roma, ricordiamo primo fra tutti Ambivio Turpione, impresario e primo attore di Cecilio Stazio e di Terenzio.
Al tempo di Silla ebbe notevole successo, al punto da divenire cavaliere per meriti artistici, l’attore comico Roscio.
Ma a parte questi grossi nomi, la maggior parte degli attori non godette presso i Romani di grande prestigio sociale. I meriti artistici non sempre erano sufficienti a riscattare l’origine, il più delle volte servile, di questi attori.
Il successo di uno spettacolo avrebbe fatto la fortuna del capocomico, dell’attore e soprattutto del magistrato organizzatore. Costui perseguiva un successo di pubblico, ma ancor più un consenso da parte dell’aristocrazia politica. Per ottenere ciò era indispensabile che all’interno dell’opera da rappresentare non ci fossero accenni di contestazione politica pericolosi sia per il magistrato, ritenuto responsabile di quanto veniva rappresentato, sia per l’autore, che correva il rischio che le sue opere non venissero selezionate.