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Giustizia e processi nell’Antica Roma

Giustizia e processi nell’antica Roma

Nella Roma repubblicana non esisteva la figura del giudice di professione. La giustizia era amministrata da consoli, pretori e dittatori, cioè quei magistrati dotati di imperium, quel potere che obbligava chiunque a rispettare gli ordini importanti.

La maggior parte delle cause penali era affidata ai pretori e si svolgeva nel Foro e nelle aule giudiziarie adiacenti. Il senato si occupava dei crimini più gravi come l’alto tradimento.

Fino alla tarda età repubblicana bastava la semplice volontà del magistrato per condannare a morte qualcuno, ma l’imputato poteva opporsi a questa decisione attraverso la provocatio ad populum, letteralmente un «ricorso al popolo» che, limitando l’eccessivo imperium del magistrato, sospendeva il suo giudizio e rinviava tutto ai comizi centuriati, che decidevano al suo posto. Questo diritto non fu applicato, per esempio, al caso di Catilina e dei suoi congiurati, che furono giustiziati senza processo e senza provocatio su richiesta di Cicerone, né durante gli scontri tra Mario e Silla.

I reati contro lo Stato erano sottoposti ai iudicia populi, i «giudizi del popolo», ovvero processi svolti davanti ai comizi e in cui il magistrato era sia giudice sia accusatore. Era lui, infatti, che doveva svolgere l’indagine (la quaestio) e citare in giudizio l’accusato, specificando la data, l’ora, il capo di imputazione e la pena proposta. Il processo iniziava convocando a giorni alterni tre adunanze del popolo, durante le quali si ascoltavano l’accusa, la difesa e i testimoni. Il magistrato, poi, formulava l’accusa e proponeva la pena; l’assemblea emetteva la sentenza.

A partire dalla metà del II secolo a.C., in un clima di alta tensione politica e sociale, i giudizi popolari furono sostituiti dalle quaestiones perpetuae, «tribunali permanenti» che dovevano garantire processi più equi e avevano compiti specifici relativi ad assassinii e avvelenamenti, violenza pubblica e privata, brogli elettorali, malversazione. Il processo iniziava se un privato cittadino (e non solo il magistrato, come nel giudizio popolare) presentava un formale atto di accusa davanti al tribunale competente. Se le accuse risultavano fondate, chi aveva intentato la causa poteva essere ricompensato con premi, altrimenti poteva essere controquerelato per calumnia.
Le accuse e il reato contestati venivano formulati per iscritto e si nominava una giuria presieduta dal magistrato. Il magistrato fungeva da moderatore e lasciava che le parti si scontrassero.
Durante il dibattimento l’accusatore presentava le prove raccolte con le sue indagini, la difesa esponeva le sue ragioni e i testimoni, sotto giuramento, erano interrogati.
Un’efficace tecnica oratoria poteva determinare il successo anche a discapito della verità.
I giurati poi si riunivano e giudicavano con un voto scritto (A per absolvo, C per condemno), poi il presidente della corte emetteva la sentenza e in caso di condanna stabiliva la pena.

Il diritto di esssere giudicato attraverso un processo giusto ed equo era una necessità presente tanto nel mondo antico quanto oggi in quello contemporaneo: per un approfondimento leggi I tre gradi di giudizio nel sistema italiano.

 

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