Trieste di Umberto Saba: il testo poetico, la parafrasi, l’analisi e il commento.
Trieste di Umberto Saba: il testo poetico
Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo;
e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore; come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
Trieste di Umberto Saba: la parafrasi
Ho attraversato tutta la città.
Poi ho percorso una strada in salita,
trafficata all’inizio, in là più deserta,
che terminava con un piccolo muro:
un angolino in cui siedo
solo; e mi sembra che dove esso finisce,
finisca anche la città.
Trieste ha una grazia
scontrosa. Se piace,
è come un ragazzaccio rozzo e affamato,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore; [Trieste ha qualcosa di riottoso e di ribelle, che in un primo tempo può allontanare, ma «se piace», se viene compresa e amata, è apprezzata]
come un amore tormentato dalla gelosia [Trieste ha il fascino di un amore tormentato dalla gelosia].
Da questa salita vedo ogni chiesa, ogni sua via
se conduce alla spiaggia affollata
o alla collina sulla cui cima rocciosa si
accampa una casa, l’ultima.
Intorno
ad ogni cosa circola
un’aria strana, tormentosa,
l’aria della città in cui sono nato (natìa).
La mia città, che è viva in ogni sua parte,
mi riserva un cantuccio, fatto apposta per me,
per la mia vita, riservata e appartata.
Trieste di Umberto Saba: l’analisi e il commento
In questa lirica, che fa parte della raccolta Trieste e una donna (1910-1912), il poeta Umberto Saba risale una delle colline che circondano Trieste, per sedersi su un muricciolo e, solitario, contempla da lontano la città che si affaccia sul mare. Umberto Saba ama la sua città e la sente vicina, nella sua bellezza un po’scontrosa, alla sua sensibilità di uomo e di poeta. Trieste è un omaggio alla città «natìa» in cui il poeta scopre le radici della propria storia.
Nella prima strofa, il primo verso riprende la struttura del primo verso de La capra («Ho parlato a una capra»): un attacco deciso nella sua essenzialità, che imprime alla lirica un andamento descrittivo-narrativo, sottolineato dal «Poi» del v. 2 e dagli enjambement ricorrenti. La descrizione prosegue al tempo presente, semplice ed essenziale: il cammino lungo la strada in salita, l’incontro con la folla, il diradarsi dei passanti fino a quando la città diventa quasi deserta; è lì che il poeta scopre il suo «cantuccio», dove egli siede «solo», ma non separato dal mondo che ama.
La seconda strofa si articola in due parti:
- nella prima parte della strofa Umberto Saba paragona Trieste a un «ragazzaccio aspro e vorace», che ha una propria «scontrosa grazia»: nel contrasto fra il significato di queste parole (scontrosa / grazia) è nascosto il segreto dell’amore che il poeta nutre per quella città, fatto di attrazione passionale, di tenerezza ma anche di tormento. La città diviene persona, di cui Saba coglie l’immagine degli «occhi azzurri», che riflettono il colore del mare, e delle «mani troppo grandi», che comunicano una sensazione di dolce tenerezza;
- nella seconda parte della strofa, il poeta, da un punto di osservazione elevato, “scopre” finalmente la città nella sua interezza e con lo sguardo la abbraccia, affascinato dalla sua duplice natura: chiassosa sull’«ingombrata spiaggia» e riservata nel silenzio verso la collina.
Nella terza strofa ritorna protagonista lo stretto rapporto che lega il poeta a Trieste, ora definitivamente «mia città», che appare ai suoi occhi «viva e schiva», con un significativo gioco di rima. Dal suo solitario «cantuccio» Saba guarda la vita che pulsa intorno, senza partecipare a essa, ma senza neppure sentirsene estraneo. In lei, nella sua Trieste, il poeta si rispecchia, come un ragazzo nella figura della madre, sentendosi profondamente accomunato a lei, «pensosa e schiva» come lo stesso autore.
La lirica presenta versi di varia lunghezza (endecasillabi, settenari e quinari). La rima è disseminata qua e là («erta / deserta», «muricciolo / solo», «piace / vorace» ecc.), anche in forma di assonanza («viva / vita / schiva»).
Questa poesia è una dichiarazione d’amore, sincera e appassionata, rivolta non alla donna amata dal poeta (Lina, moglie e ispiratrice del poeta), ma alla “sua” città, Trieste. La Trieste è dapprima indicata genericamente come «città» (v. 1), poi con il suo nome proprio (v. 8) e soltanto all’inizio dell’ultima strofa diventa «la mia città», segnando così il passaggio da una visione oggettiva a una più soggettiva, in cui il poeta rivela il suo affetto per il luogo natale.