Ad Angelo Mai di Giacomo Leopardi. Analisi e commento.
Ad Angelo Mai fu composta da Giacomo Leopardi nel gennaio 1820 per esaltare il ritrovamento dei primi cinque libri del De re publica di Cicerone.
Tra il 1817 e il 1820 Leopardi scrisse otto lettere ad Angelo Mai, letterato, filologo e prefetto della Biblioteca Vaticana. Leopardi nutriva quasi una venerazione per Angelo Mai, per gli eccezionali ritrovamenti di testi della letteratura antica, ai quali Mai giunse grazie a una cultura classica molto solida, oltre a grandi abilità filologiche. Prima del suo ritrovamento più celebre, quello De re publica di Cicerone, fra il 1813 e il 1818 Mai aveva riportato alla luce opere perdute di altri importanti autori greci e latini. Soprattutto per i suoi meriti di studioso, fu insignito del cardinalato nel 1838.
La canzone Ad Angelo Mai insiste sul contrasto tra la grandezza degli antichi e la degenerata viltà dei contemporanei, tra i quali il poeta mira a costituire eccezione.
La canzone si snoda attraverso il colloquio con alcune grandi figure esemplari di italiani: Dante, Petrarca, Cristoforo Colombo, Ariosto, Tasso, Alfieri; la loro progressione corrisponde fra l’altro alla scoperta della noia, dell’arido vero, del nulla come condizione reale dell’uomo, insomma di uno stato d’insanabile disagio esistenziale. Tale disagio è accrescito dal clima asfissiante della Restaurazione, che spegne ogni impulso all’azione e che Leopardi, nell’angolo sperduto di Recanati, soffre con particolare acutezza.
La Canzone Ad Angelo Mai può essere divisa in tre parti:
- nella prima parte (vv. 1-55), Leopardi esalta il valore civile delle scoperte filologiche di Angelo Mai: il ritrovamento de De re publica di Cicerone sembra far ritornare il momento fervido della scoperta, da parte degli umanisti, dei classici perduti per la dimenticanza in cui erano caduti nel Medioevo. Gli antichi scrissero quelle opere che allietarono i momenti in cui Ateniesi e Romani, distogliendosi dalla politica, dalla guerra o dagli affari, poterono dedicarsi alla cultura;
- nella seconda parte (vv. 56-175), il poeta si rivolge alle grandi figure italiane dell’Umanesimo: Dante, le cui ceneri sono dette metaforicamente ancora «calde» perché morì nel 1321, pochi decenni prima della fioritura umanistica, e «sante» perché il magistero del poeta per Leopardi si colloca in una dimensione sacra; Petrarca, autore del Canzoniere, in cui racconta il suo sfortunato amore per Laura. Tuttavia – riconosce Leopardi – il dolore è preferibile alla noia perché è comunque un sentimento vivo, mentre la noia spegne ogni vitalità. Pertanto – afferma il poeta – Petrarca fu fortunato perché il dolore gli impedì di provare la noia; Cristoforo Colombo, la cui scoperta di un’ignota e immensa terra fu la ricompensa gloriosa per il suo viaggio e per i rischi del ritorno. Ma – afferma il poeta – il mondo che la fantasia immaginava infinito, dopo le scoperte geografiche risulta finito, e può essere raffigurato in una piccola carta geografica. Conoscere l’ignoto serve solo a creare la consapevolezza (che è proprio dell’età adulta) che tutto è nulla e si sottrae agli uomini il potere dell’immaginazione, che è l’unico conforto alle loro sofferenze; Ariosto, le cui leggiadre fantasie proposte hanno reso «men trista» l’epoca passata. Nel presente, invece, resta la consapevolezza che solo il dolore è cosa certa, e non vana come tutto il resto; Torquato Tasso, genio perseguitato dall’odio e dall’iniqua invidia degli uomini, colto dalla morte pochi giorni prima della solenne incoronazione a poeta in Campidoglio. Ma – precisa Leopardi – anche il suo secolo è dominato dall’egoismo e dalla mediocrità, incapace di apprezzare la grandezza; ciò che si discosta dalla media è ritenuto follia, e nessuno si cura delle anime dei grandi; è lo spirito borghese a imporsi, privilegiando l’utile materiale, economico e disprezzando la poesia intesa come attività superflua e parassitaria. Infine, Leopardi si rivolge a Vittorio Alfieri, che con le sue tragedie mosse guerra ai tiranni sulla scena teatrale, e nessuno lo seguì, perché agli italiani importa soprattutto l’ozio e il vergognoso silenzio;
- nella terza e ultima parte parte (vv. 175-180), il poeta si rivolge nuovamente ad Angelo Mai e lo esorta a continuare le sue ricerche con la speranza o di spingere gli italiani a compiere azioni gloriose o a vergognarsi della loro attuale decadenza.