Gli schiavi nell’antica Grecia erano un oggetto di proprietà del proprio padrone, che poteva venderlo e fare di lui quel che voleva.
Si deve al filosofo greco Aristotele (III secolo a.C.), nella sua opera intitolata Politica (libro I), la formulazione di uno degli argomenti più riportati per sostenere la legittimità dell’istituto della schiavitù: alcuni uomini sono schiavi «per natura», per connotazioni fisiche o per appartenenza a una determinata etnia. In questo modo Aristotele forniva la giustificazione della schiavitù su base razziale e il suo parere sarebbe stato ancora citato fino all’Ottocento.
Nella società pre-arcaica descritta dai poemi omerici (Iliade e Odissea) gli schiavi erano in numero ridotto, vivevano nella casa del re e dei nobili, proprietari terrieri, dai quali erano adibiti alla cura delle greggi e, specialmente le donne, ai servizi e ai lavori domestici. Inseriti nella famiglia e vicini al padrone, avevano condizioni di vita tollerabili.
Nell’età seguente, fino ai secc. VII-VI a.C., l’impiego degli schiavi in Grecia rimase entro termini modesti: pochi nelle campagne, più numerosi nei centri abitati e prevalenti nelle miniere.
Nei secc. V e IV a.C. col progresso dell’industria e del commercio il numero degli schiavi crebbe rapidamente, fino a un terzo della popolazione totale. Essi erano distinti in più categorie: schiavi pubblici, cioè appartenenti allo Stato; schiavi privati, che stavano in casa col padrone; schiavi dei templi.
Il lavoro degli schiavi nell’antica Grecia era impiegato in ogni settore dell’attività economica (possiamo, infatti, parlare di un’economia di schiavitù), dall’agricoltura allo sfruttamento durissimo nelle miniere (per gli schiavi di Stato), all’amministrazione delle sostanze e delle attività del padrone, all’impiego pubblico.
Singolare la figura dello schiavo artigiano, che viveva in un proprio domicilio e indipendente dal suo padrone, al quale pagava una percentuale sul reddtio del suo lavoro (apophorá).
Nell’antica Grecia si diventava schiavi in seguito a sconfitte militari, in quanto prede di guerra, perché vittime di razzie piratesche, per l’impossibilità di ripagare un debito, perché nati da nozze illigittime o non riconosciuti dal padre.
Il loro prezzo variava da un minimo di 500 dramme per uno schiavo di scarse capacità a un massimo di alcune migliaia di dramme per chi possedeva buone conoscenze tecniche.
Il padrone poteva dare lo schiavo in pegno, a noleggio come servitore, operaio o rematore nella flotta, riscuotendone il soldo. Gli competeva il minimo di che vestirsi e, in caso eccezionale, un modestissimo guadagno. Gli schiavi potevano avere moglie e figli, ma questa famiglia non godeva di nessun riconoscimento giuridico. Il padrone poteva smembrarla, separare l’uomo dalla donna, i genitori dai figli, e venderli come desiderava.
Le condizioni di vita degli schiavi nell’antica Grecia erano molto varie. Terribile era la sorte che toccava a quelli (sia adulti sia bambini) che lavoravano nelle miniere: la loro vita sottoposta a ritmi di lavoro massacranti, in ambienti pericolosi e malsani, veniva consumata rapidamente. Anche il lavoro nelle campagne, soprattutto in occasione dei grandi impegni stagionali (semina, mietitura ecc.), poteva assumere ritmi massacranti. Era forse migliore la situazione degli schiavi addetti ai servizi domestici: solitamente il loro trattamento (cibo, vestiario, alloggio) era decoroso.
L’affrancamento, cioè la liberazione dalla condizione schiavile, poteva essere comprata con i risparmi accumulati oppure ottenuta dal padrone, in vita o alla sua morte, quale ricompensa per i servizi prestati, ed eccezionalmente, dallo Stato per aver combattuto nella flotta o nell’esercito.
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