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Seneca – De brevitate vitae capitolo 20 – Traduzione

De brevitate vitae capitolo 20 – Traduzione completa del De brevitate vitae capitolo 20. De brevitate vitae è il decimo dei Dialoghi di Seneca.

Seneca nell’ultimo capitolo del De brevitate vitae afferma che non bisogna provare invidia per gli uomini gratificati dal potere e dalla fama, perché tutto ciò si conquista a scapito della vita. Mentre sono presi negli ingranaggi della politica e della notorietà, gli occupati non s’accorgono che la loro vita procede senza un reale progresso spirituale, senza un frutto che dia la piacevole percezione di una vita degnamente vissuta.

[1] La condizione di tutti gli affaccendati è certamente misera, la più infelice è tuttavia quella di coloro che si affaticano neppure nelle loro attività, dormono in base al sonno altrui, camminano in base al passo altrui, ricevono l’ordine di amare e di odiare, i sentimenti più liberi di tutti. Se costoro vorranno sapere quanto sia breve la loro vita, pensino quanto piccola sia la parte che appartiene loro.

[2] Quando pertanto vedrai una pretesta tante volte già indossata, quando vedrai un nome celebre nel foro, non provare invidia: queste cose si acquistano a scapito della vita. Perché un solo anno sia chiamato con il loro nome, consumeranno tutti i loro anni. Alcuni, prima che si arrampicassero a fatica al punto più alto dell’ambizione, furono abbandonati dalla vita mentre lottavano tra le prime difficoltà; in alcuni, saliti lentamente attraverso mille compromessi ai più grandi onori, s’insinua l’amaro pensiero di essersi affaticati per l’iscrizione sepolcrale; ad alcuni l’estrema vecchiaia, mentre veniva preparata, a somiglianza della giovinezza, a nuovi obiettivi, venne meno, fiaccata tra grandi e improbi sforzi.

[3] Indecente fu un tale che restò senza fiato in un processo in difesa di litiganti del tutto sconosciuti, mentre ormai avanti negli anni parlava e cercava di catturare il consenso di un pubblico ignorante; vergognoso quello che, stanco di vivere più che di lavorare, cadde di schianto in mezzo ai suoi impegni; vergognoso quello che, tirando le cuoia mentre controllava i conti, fece ridere l’erede, che a lungo era stato in attesa.

[4] Non posso tralasciare l’esempio che mi viene in mente; Sesto Turannio era un vecchio di scrupolosa diligenza, che dopo i novant’anni, avendo ricevuto da Caio Cesare, per iniziativa di quest’ultimo, l’esonero dalla carica di procuratore, si fece riporre sul letto funebre e piangere come se fosse morto dalla famiglia riunitasi attorno. La casa era in lacrime per il collocamento a riposo del vecchio padrone e non pose fine alla mestizia prima che a quello fosse restituito l’incarico. Piace tanto dunque morire affaccendato?

[5] La maggior parte ha lo stesso stato d’animo: in loro dura più a lungo la voglia che la possibilità di lavorare; lottano con la debolezza del corpo, giudicano penosa la vecchiaia per nessun altro motivo se non perché li mette da parte. La legge, a partire dai cinquanta anni, non chiama alle armi il soldato, a partire dai sessanta non convoca il senatore: gli uomini ottengono con maggiore difficoltà il riposo da se stessi che dalla legge.

[6] Intanto, mentre sono trascinati e trascinano, mentre si rovinano la pace l’un l’altro, mentre sono reciprocamente infelici, la vita è senza frutto, senza piacere, senza alcun progresso spirituale: nessuno ha la morte davanti agli occhi, ognuno volge lontano le proprie speranze, alcuni provvedono perfino a ciò che è al di là della vita, enormi moli di sepolcri e dediche di opere pubbliche e giochi funebri ed esequie sontuose. Ma, per Ercole, i funerali di costoro, come se avessero vissuto per pochissimo tempo, dovrebbero essere fatti alla luce delle fiaccole e dei ceri!

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