Il Giudizio universale è situato sulla parete dietro l’altare della Cappella Sistina. A progettarlo e a realizzarlo è Michelangelo Buonarroti.
Storia del Giudizio Universale
È Clemente VII a volerlo, poco dopo il Sacco di Roma. Il progetto però si delinea solo sotto papa Paolo III.
L’artista, dopo una lunga fase di studio, rimane sugli spalti dal 1536 al 1541, quando l’affresco è svelato alla vigilia di Ognissanti (31 ottobre), lo stesso giorno in cui, nel 1512, sono stati rivelati gli affreschi della volta.
L’opera il Giudizio universale, al contrario di quanto previsto, incide profondamente sulla precedente decorazione dell’ambiente. Michelangelo cancella infatti l’Assunta realizzata da Perugino nel 1480 circa, come “pala d’altare” per la cappella. Non solo: Michelangelo copre anche due delle lunette da lui stesso dipinte nel corso della campagna per l’esecuzione della volta. Inoltre con calce e marmo fa in modo di inclinare il soffitto verso l’altare, per impedire che si depositi la polvere e per garantire una visione completa.
Lo stile di Michelangelo rispetto agli affreschi della Cappella Sistina appare mutato: non è trionfante, ma riflette del timore e della paura del periodo e degli interrogativi sulla propria condizione di uomo.
Il Giudizio universale non è un soggetto nuovo in campo artistico; altri sono stati infatti realizzati, ad esempio, da Giotto nella Cappella degli Scrovegni (Padova) e nel soffitto della Cupola di Santa Maria del Fiore.
Descrizione del Giudizio Universale
Il Giudizio universale di Michelangelo è organizzato in fasce parallele. Gesù appare impassibile sul trono, al centro dell’opera. Il volto è imberbe; il braccio destro dà avvio ad un vortice di personaggi, un movimento circolare che parte dal basso in destra e risale poi verso sinistra.
Attorno a Gesù sono raffigurati santi, apostoli, martiri.
Maria, al fianco di Gesù, assiste impotente alla scena e appare rassegnata. Sotto la Vergine è rappresentato San Lorenzo e accanto San Bartolomeo. Secondo la tradizione, San Bartolomeo subì il martirio in Siria, venendo scuoiato della sua pelle. Nel dipinto è lo stesso santo a mostrarla; nel viso è possibile riconoscere un autoritratto di Michelangelo.
Accanto alla Vergine, Sant’Andrea raffigurato di spalle: un’immagine che crea scalpore tanto che in età successiva è affidato a Daniele da Volterra il compito di coprire le nudità con un velo nero. Nel corso dei restauri, alcuni sono mantenuti, per conservare testimonianza di questo intervento.
Nelle due lunette sono raffigurati degli angeli apteri, cioè senza ali. Alcuni di loro suonano le tube e sono perciò definiti tubici; nell’Apocalisse si fa infatti riferimento ad un «suono sordo» nel giorno del Giudizio Universale. Altri portano, invece, i simboli della Passione di Cristo, simbolo del cammino della Redenzione: croce e corona di spine (a sinistra); colonna della Flagellazione (a destra). Le due lunette si ricollegano al dipinto della Cappella Sistina.
L’opera non presenta una composizione particolare, risulta privo di proporzioni. I corpi sono espressione di potenza fisica, che ricorda più la scultura che la pittura. Potenza fisica che simboleggia tanto la dimensione divina quanto la condizione drammatica. Coloro che saranno destinati alla salvezza e i dannati hanno tutti le stesse dimensioni e non c’è una composizione gerarchica.
I riferimenti letterari del Giudizio Universale sono essenzialmente tre: il Vangelo secondo Matteo; l’Apocalisse di San Giovanni; la Divina Commedia di Dante Alighieri.
Il Cristo, al centro della parete, circondato da una massa di corpi contorti e disperati, pronuncia il verdetto destinato a separare le anime dei giusti (reincarnati nell’Ultimo Giorno, in basso a sinistra, destinati a salire a fianco del Salvatore), dai dannati ( in basso a destra). Questi ultimi sono percossi da Caronte con un remo (così come descritto da Dante Alighieri nel terzo Canto dell’Inferno, Divina Commedia), per condurli davanti al giudice infernale Minosse, con il corpo avvolto da spire di serpente.
Il Giudizio Universale contiene pertanto un articolato messaggio teologico, che certo all’epoca apparve come un rigoroso monito alla Chiesa, travagliata dalla Riforma e alle soglie del Concilio di Trento.
Michelangelo porta alle estreme conseguenze scelte che hanno caratterizzato le sue opere precedenti: cancella il paesaggio; appiattisce la struttura prospettica della composizione; esaspera le pose, concentrando il proprio interesse nella fisicità greve e scomposta dei corpi, che contraddicono l’ideale di decoro e di bellezza dei nudi del Rinascimento.
Dante, Michelangelo e Caronte
Grande ammiratore di Dante, in un’età che gli preferiva Petrarca nella poesia e Boccaccio nella prosa, Michelangelo si rifà a lui per ideare la figura di Caronte nell’affresco del Giudizio Universale della Cappella Sistina.
Rispetto al modello, Michelangelo si prende alcune libertà. Egli fissa il demonio non nell’atto di gridare ai dannati (ha, infatti, le labbra serrate), né mentre “accenna” loro per raccoglierli, ma mentre «batte col remo qualunque si adagia»: è in effetti il gesto più teatrale, che meglio si presta a essere tradotto in immagine (e Michelangelo non rinuncia, come suo solito, a dare al corpo dipinto un rilievo scultoreo).
I suoi occhi spalancati e fissi, con l’iride nera contornata dal bianco del bulbo oculare, sono gli «occhi di bragia» di Dante; ma mentre nel poema il vecchio ha «lanose gote», Michelangelo gli presta solo un paio di lunghi baffi; e allo stesso modo l’«antico pelo» si riduce ai cernecchi irsuti sul capo.
La soppressione della barba è dovuta forse a due motivi: da un lato, essa sarebbe risultata di impaccio figurativo nella posa del personaggio (avrebbe impedito di mettere in rilievo la muscolatura della spalla); dall’altro avrebbe dato al personaggio un aspetto più autorevole e severo.
Michelangelo parte dunque dai suggerimenti di Dante per creare una figura sua, minacciosa ed energica come quella del poema, ma anche atletica e grottesca.