L’espressione “non expedit” viene dal latino e significa “non è conveniente”, “non è opportuno”. Con questa formula papa Pio IX il 10 settembre 1874 impose ai cattolici il divieto di partecipare alla vita politica del nuovo Stato italiano; permise invece la partecipazione alle elezioni amministrative.
Egli affermò che i cattolici non dovevano essere “né eletti né elettori”, poiché riteneva che il Parlamento del nuovo regno fosse dominato da forze ostili alla Chiesa, e che quindi essi avrebbero potuto fare ben poco per portarvi il loro contributo.
Il non expedit rimase in vigore fino al 1919, quando fu revocato da papa Benedetto XV.
Come si arrivò al non expedit?
Il 27 marzo 1861 Cavour aveva pronunciato in Parlamento il discorso “libera Chiesa in libero Stato“, in cui proclamava Roma, ancora sotto la sovranità del papa, capitale “naturale” del Regno d’Italia. Nasceva così la cosiddetta “questione romana“, la controversia che condizionò i rapporti tra lo Stato e la Chiesa fino al 1929, quando vennero firmati i Patti Lateranensi.
Già il 30 gennaio 1868 la Sacra Congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari stabilì che la partecipazione alla vita politica “non era conveniente” (non expedit) per i cattolici, ai quali fu vietato di votare alle elezioni politiche, mentre la partecipazione era concessa per quelle amministrative. La rottura divenne irrevocabile con l’annessione di Roma al Regno d’Italia (1870).
Dopo aver invano cercato una soluzione concordata, il governo italiano decise di regolare con un atto unilaterale la posizione del pontefice. Il 13 maggio 1871 fu così emanata la legge delle Guarentigie (“garanzie”), che riconosceva al papa – la cui persona fu dichiarata sacra e inviolabile – la piena libertà nell’esercizio del suo magistero spirituale e la sovranità sui palazzi del Vaticano, del Laterano e sulla villa di Castel Gandolfo; si conservava anche, “a favore della Santa Sede la dotazione dell’annuale rendita di 3.225.000 lire”. Inoltre, la legge disciplinava i rapporti tra Stato e Chiesa stabilendo la reciproca indipendenza.
Pio IX rifiutò questa legge e si dichiarò prigioniero dello Stato italiano ribadendo (nel 1874) la formula del “non expedit”; i governi italiani, invece, la rispettarono e conservarono i capitali accumulati dalla prevista dotazione annuale a favore della Santa Sede.
Cosa succede dopo il non expedit?
Con l’inizio del XX secolo, la Chiesa si mostrò più disponibile a risolvere la questione romana. L’11 giugno 1905, con l’enciclica Il fermo proposito, Pio X (1903-14) pur non abolendo il non expedit, permise ai cattolici di entrare in Parlamento a titolo personale. Nel 1909, poi, mise alla direzione dell’Unione elettorale cattolica italiana Vincenzo Ottorino Gentiloni, che promosse un accordo con i liberali in vista delle elezioni politiche del 1913 (patto Gentiloni). In chiara funzione antisocialista, ai cattolici fu consentito di votare i candidati liberali che si erano impegnati a osteggiare eventuali provvedimenti anticlericali. In questo modo i cattolici aggiravano il divieto di Pio IX che vietava loro la partecipazione alla vita politica.
Chi abolì il non expedit?
Con l’elezione al soglio pontificio di Benedetto XV (1914-1922) iniziò poi una collaborazione ufficiosa tra lo Stato e la Chiesa; nel 1919, il papa Benedetto XV abolì il non expedit, legittimando il neonato Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo.