A mia moglie poesia di Saba dedicata alla moglie Lina. Scritta nel 1911, la poesia suscitò un enorme scandalo. È infatti il primo caso di una lirica in cui la donna viene paragonata ad animali umili, di cui il poeta descrive comportamenti quotidiani, il raspare, il muggire, il rintanarsi nella gabbia.
A mia moglie Saba testo
Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
Così, se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne.
Se l’incontri e muggire
l’odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t’offro quando sei triste.
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritorglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.
E così nella pecchia¹
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna.
¹pecchia: ape
A mia moglie Saba commento
Che la poesia A mia moglie, scritta nel 1911 (lo stesso anno in cui La capra venne pubblicata per la prima volta), abbia suscitato scandalo non stupisce: è il primo caso di una lirica in cui la donna viene paragonata ad animali umili, di cui il poeta descrive comportamenti quotidiani, il raspare, il muggire, il rintanarsi nella gabbia.
I sette animali (pollastra, giovenca, cagna, coniglia, rondine, formica, pecchia) a cui è paragonata Lina, la moglie del poeta, hanno la caratteristica di essere «sereni», sia perché mansueti sia perché, pur non essendo immuni da sofferenze, non hanno consapevolezza del travaglio del vivere. L’unicità della moglie, che non ha simili tra le altre donne, consiste appunto nel fatto che, come gli animali, possiede un’istintività vera e serena.
Esaminiamo il primo paragone: la pollastra è giovane, bianca, talvolta ha le piume arruffate dal vento, raspa la terra, incede lentamente, pettoruta e superba, con un passo di regina. La pollastra è «migliore del maschio», come lo sono «tutte le femmine di tutti i sereni animali». Già emerge da questi versi la ragione profonda della poesia: ciò che accomuna la moglie alle femmine degli animali sono la vitalità e la mansuetudine innate, prerogativa che le rende vicine a Dio più di quanto sia qualsiasi altro essere.
Lina è anche simile a una «gravida giovenca», a sottolineare la comune vitalità femminile che si esprime in una maternità «libera» e «festosa». È una giovenca che conserva tutte le caratteristiche della sua specie: la carne teneramente rosata del collo, il muggito lungo e lamentoso che chiede un dono, così come a volte lo sollecita Lina quando è triste.
Poi viene la cagna, ardente d’amore e di devozione. La sua intensa animalità si esprime nella devozione amorosa per il padrone, ma anche nella ferocia della gelosia di cui soffre (è pronta a scoprire i «denti candidissimi» se qualcuno tenta di avvicinarsi).
La coniglia invece è timida e paurosa, ma ha il coraggio di strapparsi il pelo per imbottire il nido dei suoi piccoli (ritorna il tema della maternità). Se è priva di cibo si rannicchia in se stessa cercando gli «angoli bui», così che nessuno potrebbe avere il coraggio di farle del male, come nessuno potrebbe far soffrire la moglie del poeta.
Della rondine la donna ha una caratteristica esteriore (si muove in modo aggraziato) e una connotazione simbolica (annuncia la primavera, portando al poeta una nuova vita); per di più è una rondine «fedele», come la cagna, perché in autunno non lascia il nido.
Nella formica e nell’ape scorgiamo i simboli della previdenza, della saggezza, della laboriosità. Della formica parla la nonna al bimbo che l’accompagna, riferendosi probabilmente alla nota favola (La cicala e la formica) in cui la lungimiranza della formica si contrappone alla spensierata imprudenza della cicala.
In sostanza, attraverso le similitudini con i vari animali, Saba esalta la vitalità femminile della donna, manifestando una concezione profondamente positiva degli istinti naturali, e non un’opinione irriverente. Anzi, come scrisse lo stesso poeta: «La poesia ricorda piuttosto una poesia religiosa […] scritta come altri reciterebbe una preghiera».
Certo dopo secoli di liriche in cui le donne sono state paragonate ad angeli luminosi, a esseri venuti «da cielo in terra a miracol mostrare» (Dante Alighieri, Tanto gentile e tanto onesta pare clicca qui), la dimensione terrena e umana delle similitudini che descrivono Lina stupisce, ma contemporaneamente affascina e conquista.
A mia moglie di Umberto Saba, infatti, è una poesia anticonformista non solo nei confronti della tradizione letteraria, ma soprattutto perché in essa il poeta fa ricorso a similitudini-tabù. Di tutte le possibili femmine a cui Lina poteva essere paragonata, il poeta ha infatti scelto:
– una gallina, che nell’immaginario comune evoca la stupidità (tanto quanto l’oca), anche se, a ben guardare, il termine pollastra non equivale al termine gallina: la pollastra è “una giovane ragazza piacente e ingenua” (Dizionario Italiano Sabatini Coletti, Firenze, Giunti 1977), e come tale richiama l’idea di sessualità, non quella di stupidità;
– una vacca, ingentilita con il sinonimo giovenca;
– una cagna e una coniglia, paragoni frequentemente usati in senso erotico, ma con un significato spregiativo.
E allora? Come spiegare l’uso di similitudini così irriverenti?
Saba, in realtà, usa queste parole nella loro accezione pura, primitiva e incontaminata, senza allusioni alle connotazioni che nel linguaggio comune sottendono. D’altra parte, in Storia e cronistoria del Canzoniere, lo stesso Saba definisce A mia moglie «una poesia infantile: a voler dire che non ci sono disprezzo e misoginia, anzi grandissima tenerezza.
Questa scelta di stile rientra nei canoni di quella “poesia onesta” (così è definita la poesia di Saba), che esprime in modo semplice e diretto ciò che c’è in fondo all’anima, prescindendo dall’uso comune di alcune parole. Le parole di Saba vogliono dire semplicemente quello che significano, perchè egli ama «la verità che giace al fondo» (in Amai di Umberto Saba).
In definitiva, nella poesia A mia moglie Saba usa quelle espressioni per fondere erotismo e senso di maternità. Tale fusione è espressa pienamente nelle tre femmine descritte nelle strofe centrali: la giovenca (gravida, festosa, languida mentre si lascia accarezzare); la cagna (dolce e feroce, ma soprattutto santa e devota); la coniglia (timida ma attenta, pronta al sacrificio per i suoi piccoli). La rondine, la formica e l’ape, rappresentano infine le virtù familiari, perché mettono in evidenza più la moralità che la sensualità.
Comunque lo si voglia giudicare, A mia moglie di Saba è una grande e originalissima poesia d’amore.
A mia moglie di Umberto Saba: analisi
La poesia presenta sei strofe ineguali (dai ventiquattro versi della prima agli otto della quinta), formate da versi di varia lunghezza (il primo verso di ogni strofa è sdrucciolo, con l’eccezione della terza strofa), scandite ritmicamente dalla stessa anafora di apertura. Lo schema metrico è del tutto libero.
A ciascuna strofa corrisponde un animale, tranne che all’ultima che ne presenta due; le prime quattro strofe si concludono con note di tristezza e di sofferenza.
Il lessico è comune, tranne poche eccezioni (come «assonna», «ti quereli», «provvida»), e il registro stilistico è colloquiale.
La sintassi, apparentemente lineare (poche subordinate, prevalentemente relative), è in realtà mossa dalle molte figure d’inversione («il collo china», «tanto è quel suono lamentoso» ecc.), anzi, alla sintassi è spesso affidato il compito di riscattare la quotidianità del linguaggio.
Accorta è la distribuzione delle rime che si presentano spesso in posizione baciata (vv. 8-9, 14-15 ecc.); più raramente in posizione alternata (vv. 22-24, 28-30 ecc.); ma il più delle volte a distanza, con attente riprese e modulazioni. Talvolta le rime sono sostituite da figure foniche meno forti, come la quasi-rima (vv.11-12), l’assonanza (vv, 2-5, 26-27, 50-51 ecc.), la consonanza (vv. 57-59). L’effetto è quello di una musicalità calda e semplice, a metà strada tra l’ingenuità di una poesia infantile (secondo quanto Saba stesso disse) e la cadenza di una preghiera.
(da S. Damele e T. Franzi, Storie che contano, volume B, Loescher Editore, rid. e adatt.)