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Alla stazione in una mattina d’autunno di Carducci

Alla stazione in una mattina d’autunno di Giosuè Carducci fa parte delle Odi barbare; è datata 25 giugno 1875.

Ha per tema la partenza della donna amata – Lidia (pseudonimo di Carolina Cristofori Piva, legata al poeta dal 1871 e morta, ancora giovane, nel 1881) – dalla stazione di Bologna. Spicca l’immagine del treno, simbolo di progresso e modernità, immaginato come un mostro che rapisce la donna amata.

Metrica La poesia Alla stazione in una mattina d’autunno si compone di 15 strofe alcaiche, così chiamate dal nome del poeta greco Alceo, a cui se ne attribuisce l’invenzione. È composta da due endecasillabi (dodici sillabe), un enneasillabo (nove sillabe) e un decasillabo (dieci sillabe).

Alla stazione in una mattina d’autunno di Giosuè Carducci parafrasi

vv. 1-4 Oh quei lampioni (fanali) come s’inseguono monotoni (accidiosi) là dietro gli alberi, tra i rami gocciolanti (stillanti) pioggia, gettando sul fango una luce così debole da sembrare che stiano sbadigliando!

vv. 5-8 Flebile, acuta, stridula, fischia la locomotiva lì vicino. Il cielo plumbeo e il mattino autunnale ci circondano come un grande fantasma.

vv. 9-12 Dove e a che scopo corre (move) questa gente, che si affretta (affrettasi) alle tetre (foschi) carrozze (carri), imbacuccata (ravvolta) e silenziosa (tacita)? A quali (che) ignoti dolori o tormenti di speranza (speme) lontana?

vv. 13-16 Anche (pur) tu pensierosa (pensosa) Lidia, dai il biglietto (la tessera) al secco taglio del controllore (de la guardia), e dai al tempo incalzante gli anni della tua giovinezza, gli istanti di gioia e i ricordi.

vv. 17-24 Vanno e vengono lungo il nero convoglio e incappucciati di nero i frenatori (i vigili), simili a ombre; hanno una fioca lanterna e mazze di ferro: e i freni di ferro battuti rimandano un lugubre e lungo suono: dal fondo dell’anima risponde una eco di noia angosciosa (tedio doloroso) che sembra (pare) uno spasimo.

vv. 25-28 E gli sportelli che sbattono al momento della chiusura paiono offese: il segnale della partenza che suona veloce sembra uno scherno: la pioggia scroscia forte sui vetri.

vv. 29-32 Ormai (Già) il mostro [: il treno], consapevole della sua anima metallica, sbuffa, s’agita (crolla), ansima (ansa), accende (sbarra) i fanali (occhi) luminosi (fiammei); emette (gitta) nel buio un fischio smisurato (immane) che sfida lo spazio.

vv. 33-34 Parte (Va) il crudele mostro [: il treno]; porta via l’amore mio (gli amori miei) con l’orribile fila dei vagoni (traino) sbattendo le li (l’ale).

vv. 35-40 Ahi, il viso pallido e il bel velo scompaiono nel buio mentre saluta. O viso dolce di un pallore rosato, o occhi sereni brillanti come stelle, o fronte bianca nascosta tra i molti ricci in modo soave.

vv. 41-48 La vita palpitava (fremea) nella tiepida brezza (aere), l’estate palpitava (fremea) quando i tuoi occhi mi sorrisero (arrisero); e il primaverile (giovine) sole di giugno si compiaceva (piacea) di baciare luminoso la morbida guancia fra (in tra) i riflessi castani della chioma (crin): i miei sogni più belli del sole circondavano (ricingean) la delicata (gentile) figura (persona) come un’aureola.

vv. 49-52 Torno ora sotto la poggia, tra la nebbia (la caligine), e vorrei confondermi con esse; barcollo come stordito (com’ebro), e mi tocco, nel timore che sia anch’io dunque un fantasma.

vv. 53-56 Oh quale caduta di foglie, gelida, ininterrotta (continua), silenziosa (muta), pesante (greve), sull’anima! Mi sembra che ovunque nel mondo non possa che esserci un unico ed eterno novembre.

vv. 57-60 Fortunato chi perse il senso del vivere, meglio quest’ombra, questa nebbia: io voglio io voglio adagiarmi in una malinconia (un tedio) che duri per sempre (infinito).

Alla stazione in una mattina d’autunno di Giosuè Carducci analisi e commento

La poesia si divide in tre parti:

  • la prima corrisponde ai vv. 1-40 e descrive la partenza della donna alla stazione in un giorno autunnale di pioggia;
  • la seconda va dal v. 41 al v. 48 e rievoca per contrasto una situazione del passato: i giorni estivi trascorsi lietamente con Lidia;
  • la terza occupa le ultime tre strofe, dal v. 49 al v. 60, e si riferisce al poeta che, dopo aver accompagnato la donna, torna solo a casa e aspira, con cupo masochismo, ad abbandonarsi alla noia e allo squallore dell’esistenza («io voglio, io voglio adagiarmi/in un tedio che duri infinito»; vv. 59-60).

La poesia è ambientata in una stazione ferroviaria e il discorso insiste su tutta una serie di particolari quotidiani banali e prosaici (il biglietto forato dal controllore, i frenatori che percuotono i freni con sbarre di ferro, il rumore degli sportelli sbattuti, l’ultimo invito a salire in carrozza). L’indugio sui particolari prosaici possiede una funzione particolare: sottolineare lo squallore avvilente della vita moderna, che nega ogni aspirazione alla bellezza.

Questa stazione ferroviaria è una sorta di regno dei morti: le figure che in essa si muovono silenziose, oppresse da «ignoti dolori» e «tormenti», richiamano le ombre dei dannati che si aggirano nell’Inferno; tutto è avvolto come da un’atmosfera spettrale, lugubre, su cui aleggia un senso di pena e sofferenza. Non manca neppure in questo scenario infernale, la figura di Satana: il treno, un «empio mostro» contrassegnato da un tratto tipico delle figure demoniache, i «fiammei occhi».

La vita moderna, rappresentata dalla stazione e dal treno, suscita ormai nel poeta solo angoscia e «tedio», perché è bruttezza irrecuperabile, spleen, negazione della gioia e dell’amore.

 

 

 

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