Lo storico greco Erodoto, che viaggiò in Mesopotamia nel V secolo a. C., riferisce che non esistevano medici in quella regione, forse perché non trovò figure simili a quelle dei medici greci (Leggi sul sito di Studia Rapido Ippocrate e la nascita della scienza medica). In quella regione le cause delle malattie erano sconosciute, anche perché la religione vietava l’autopsia dei cadaveri e di conseguenza non si aveva un’idea chiara dell’anatomia umana. Era radicata l’idea che le malattie dipendessero dall’intervento maligno di un demone, oppure di un dio, che puniva la persona per qualche sua mancanza o peccato, o anche da maledizioni lanciate da altre persone.
Chi stava male allora interpellava il medico-mago, il baru, che interpretava i sintomi del malato collegandoli a questo o a quel demone o dio ed esprimeva la sua prognosi; in alternativa si chiamava l’ashipu, l’esperto di magia e di esorcismi.
Accanto alle pratiche magico-religiose del baru e dell’ashipu, ma spesso intrecciate ad esse, esistevano quelle dell’asu, il farmacista-erborista esperto in ricette a base di sostanze vegetali e animali: piante medicamentose, sciroppi di frutta, unguenti, polveri da diluire ricavate da pelli di serpente o gusci di tartaruga e via dicendo.
In assenza di scuole mediche di qualunque tipo, nasceva dalla pratica anche la chirurgia, applicata soprattutto in casi di lesione gravi dovute a incidenti o a ferite di guerra. Certo occorreva del fegato per fare i chirurghi in Mesopotamia. Non tanto perché gli strumenti erano rudimentali e le operazioni condotte senza anestesia, ma perché il codice di Hammurabi (il codice di leggi del re babilonese Hammurabi) stabiliva pene severe per il chirurgo che sbagliava l’intervento, fino al taglio della mano o alla morte. Queste disposizioni sembrano essere un’anticipazione di concetti moderni come quello di “responsabilità terapeutica” del medico o di “diritti del malato”.