L’autarchia fascista in Italia mirava a rendere il Paese economicamente indipendente dal resto del mondo nei rifornimenti di materie prime e di derrate alimentari. Pertanto lo Stato garantì incentivi economici e fiscali alle grandi industrie (elettriche, chimiche, siderurgiche, meccaniche), impose limiti all’importazione di materie prime, promosse lo smercio di “surrogati”, ossia prodotti nazionali che sostituivano beni acquistati all’estero, come il caffé e il té.
Al posto della pasta e del pane bianco (spacciati come alimenti troppo raffinati, e quindi poco salutari), il governo incoraggiò il consumo di riso, oppure di miscele di farine d’orzo, lenticchie e cicerchie.
Quando iniziò l’autarchia fascista?
Il regime fascista aveva avviato l’Italia sulla strada dell’autarchia già dopo la crisi economica causata dal crollo della Borsa di New York del 1929. Fu però nel 1935, dopo le sanzioni decretate dalla Società delle Nazioni in seguito alla guerra d’Etiopia, che Mussolini lanciò una grande campagna a favore dei prodotti italiani.
Benito Mussolini, alla guida del regime fascista dal 1922 al 1943, era ossessionato dall’idea del raggiungimento dell’autarchia, ovvero dell’autosufficienza economica del Paese: l’Italia fascista doveva bastare a sé stessa dal punto di vista economico.
Quali furono gli effetti dell’autarchia fascista?
L’autarchia ebbe effetti contraddittori. Da un lato, diede un forte impulso all’apparato industriale del paese, le cui imprese potevano godere dell’assenza di concorrenza estera; dall’altro, danneggiò settori, come quello tessile, che avevano bisogno di importare materie prime di cui l’Italia era povera. Inoltre, da un lato ridusse la disoccupazione, grazie alla necessità di sfruttare al massimo la forza lavoro nazionale; dall’altro però il potere di acquisto degli italiani risultò indebolito sia per la politica di abbassamento dei salari – che nel 1939 tornarono quasi al livello del 1913 – sostenuta dalle corporazioni per andare incontro alle esigenze dei datori di lavoro, sia perché i prodotti nazionali erano più costosi di quelli di importazione.
Per reagire alle conseguenze della Grande crisi, furono avviati imponenti programmi di lavori pubblici e nacquero l’Istituto mobiliare italiano (IMI, 1931) e l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI, 1933). In questo modo lo Stato assunse il controllo delle imprese indebitate.
La strada dell’autarchia comportò profonde conseguenze anche in campo agricolo e alimentare. Le colture intensive (dalle quali derivavano i pochi prodotti destinati all’esportazione) furono sacrificate per favorire la produzione interna di tutti i generi necessari ad alimentare la popolazione. In particolare il regime cercò di supplire alla carenza di cereali con provvedimenti (incentivi ai contadini, miglioramenti tecnici ecc.) finalizzati ad aumentarne la produzione nazionale e a scoraggiarne l’importazione dall’estero. Fu la cosiddetta battaglia del grano.
Pur sostenuta da un’imponente campagna propagandistica (condotta attraverso giornali, riviste e libri scolastici, messaggi pubblicitari, concorsi e premi per i contadini più produttivi, discorsi radiofonici e filmati cinematrografici), la politica autarchica non ottenne i risultati sperati. La produttività agricola rimase scarsa, specialmente al Sud, e il grano continuò a essere insufficiente.