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Canto 13 Inferno riassunto e spiegazione

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Nel canto 13 Inferno troviamo Dante e Virgilio che, guidati dal centauro Nesso (mezzo uomo e mezzo cavallo), sono giunti nel secondo girone del settimo cerchio dell’Inferno, dove sono puniti i violenti contro la propria persona (i suicidi) e contro i propri beni (gli scialacquatori).

Qual è la pena e il contrappasso per i suicidi?

I suicidi sono trasformati in alberi secchi e i loro rami vengono straziati dalle arpie, creature mitologiche dal corpo di uccello e dal volto di donna: così si compie la punizione per contrappasso nei confronti di chi ha straziato e soppresso il proprio corpo. Anche dopo il Giudizio Universale saranno i soli a non rientrare nel loro corpo, ma lo trascineranno e lo appenderanno ai loro rami.

Qual è la pena e il contrappasso per gli scialacquatori?

Gli scialacquatori sono invece costretti a correre nudi fra gli arbusti dei suicidi, per sfuggire ai morsi famelici di insaziabili cagne nere; quando vengono raggiunti sono dilaniati così come loro hanno dilapidato i loro patrimoni.

Cosa succede nel canto 13 Inferno della Divina Commedia?

I due poeti sono nella selva dei suicidi: un bosco dove non ci sono sentieri tracciati; né piante verdi ma di colore nerastro; non rami dritti ma nodosi e contorti; nessun frutto ma solo spine velenose. Qui le Arpie (con il corpo di uccello e volto umano), appollaiate sui rami, fanno i loro nidi ed emettono strani lamenti.

Dante si guarda intorno per capire da dove provengano i lamenti ma non vede nessuno; Virgilio allora invita Dante a spezzare un ramo di un albero lì vicino, perché comprenda. Dante, dopo aver strappato il ramo, si accorge che dal ramo spezzato escono gemiti e sangue e viene redarguito dall’albero stesso, che gli dice che dovrebbe essere più pietoso con le anime. Il poeta allora si rivolge all’anima prigioniera e le chiede di rivelare il suo nome perché egli possa rinnovare il ricordo di lei sulla terra.

Chi incontra Dante nel canto 13 dell’Inferno?

L’anima si presenta e racconta la sua storia. È Pier delle Vigne (o della Vigna) segretario di Federico II. Dopo una vita interamente al servizio del suo sovrano, fu sospettato di tradimento, vittima dell’invidia di corte. Incapace di vincere la vergogna si suicidò (per Dante si tratta di una sterile forma di protesta, perché un suicidio per orgoglio non ha nulla di nobile).

Dopo aver maledetto i suoi nemici e difeso l’onore del suo re, cui continua a essere fedele nonostante tutto, rivendicando la propria innocenza, chiede a Dante di raccontare la verità fra i vivi e di difendere il suo buon nome.

Spiegazione di come i suicidi si trasformino in piante

Virgilio, pregato da Dante, chiede a Pier delle Vigne in che modo l’anima dei suicidi si trasformi in pianta. Il dannato spiega che appena dopo che Minosse (il giudice infernale) ha emesso la sentenza, le anime di questi peccatori (i suicidi) precipitano nel settimo cerchio, dove mettono radici, rami e foglie per il pasto delle immonde Arpie. Esse, lacerando le piante, creano delle ferite dalle quali escono i lamenti dei dannati.

Le anime dei suicidi – prosegue Pier delle Vigne – dopo il Giudizio Universale, non potranno mai ricongiungersi con il corpo, a differenza di tutte le altre anime, «perché non è giusto avere ciò di cui uno si priva da sé»; i loro corpi senza vita saranno trascinati in quella foresta e appesi ai rami di quegli alberi che li ospitano.

Gli scialacquatori

Pier delle Vigne ha appena concluso il suo discorso, quando improvvisamente un rumore forte e inatteso attrae l’attenzione di Virgilio e Dante.

In quella selva fitta e intrecciata da un sottobosco di spine insidiose e avvelenate appaiono due dannati che fuggono correndo, inseguiti da nere cagne. Si fanno largo con le mani e il petto nudo, incuranti del dolore che si procurano e delle ferite, tanta è la paura e la disperazione. Quello davanti invoca disperatamente l’annientamento totale, per sfuggire alle lacerazioni inflittegli dalle nere cagne; viene deriso dal compagno, che, a corto di fiato, tenta di nascondersi in un cespuglio. Invano: le nere cagne lo raggiungono e ne fanno strazio.

Si tratta di due scialacquatori: quello che invoca la morte è il senese Ercolano Macconi, morto nel 1288 nella battaglia di Pieve al Toppo, persa dai suoi concittadini contro gli aretini. In quell’occasione, ricorda sarcasticamente il suo compagno, egli non corse tanto veloce da salvarsi, per non ritornare alla sua vita misera. Quest’altro spirito è invece Iacopo o Giacomo di Sant’Andrea, padovano, ucciso nel 1239. Sono numerosi gli aneddoti legati alla sua tendenza allo sperpero: per esempio, durante una gita in barca sul Brenta si divertì a svuotare nell’acqua una borsa piena di monete; un’altra volta, fece incendiare la propria villa per il solo desiderio di vedere un grande fuoco.

Un suicida fiorentino

La pianta straziata dalle cagne e da Giacomo di Sant’Andrea che vi cercava un inutile riparo, e in cui è prigioniera l’anima di un suicida, rimprovera lo scialacquatore: non gli è giovato a niente usarlo come riparo dalle cagne; egli non ha alcuna responsabilità per la sua vita malvagia. Poi chiede a Dante e Virgilio, che si sono avvicinati, di raccogliere i suoi rami strappati e metterli ai piedi del suo tronco; egli spiega, poi, fu di Firenze, città sempre in discordia, e si suicidò in casa propria, ma non ne dice il motivo.

Sull’identità del suicida fiorentino gli antichi commentatori non sono concordi. Si tratta di un fiorentino vissuto nel Duecento: forse si tratta di Rucco de’ Mozzi, un mercante suicida per il suo fallimento; o forse Lotto degli Aghi, un giudice che nel 1285 si tolse la vita per aver pronunciato una sentenza di morte ingiusta, per ricavarne denaro.

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