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Capitolo 26 Il principe di Machiavelli – Esortazione finale

Il capitolo 26 de Il principe di Machiavelli è il capitolo conclusivo e il più famoso dell’opera. Contiene l’«Esortazione a pigliare l’Italia e a ripristinare la libertà dai barbari». L’esortazione finale del capitolo XXVI del Principe è rivolta a Lorenzo di Piero de’ Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico, affinché proprio lui prenda in mano le redini del destino dell’Italia, funestata dalle guerre e saccheggiata dagli eserciti stranieri, e crei un nuovo forte Stato che possa liberare l’Italia dal dominio straniero.

Capitolo 26 Il principe di Machiavelli – riassunto e spiegazione

Il capitolo 26 de Il principe di Machiavelli si apre con la descrizione della situazioni di crisi dell’Italia «sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa», che esige uno sforzo decisivo per ribaltare una condizione giunta ormai al fondo del baratro. Le condizioni attuali sono a favore di un «principe nuovo». A questo proposito, Machiavelli richiama gli esempi di Mosé, Ciro e Teseo (precedentementi incontrati nel capitolo VI dedicato al principato nuovo, conquistato per armi e virtù proprie), che seppero cogliere la favorevole opportunità presentata dalla sorte per liberare i loro popoli.

L’autore prosegue con l’affermazione della necessità e dell’urgenza della «redenzione» (liberazione) dell’Italia, che sarà possibile se il dedicatario dell’opera, cioè Lorenzo di Piero de’ Medici, si assumerà l’onere dell’iniziativa, che sarebbe favorita anche da Dio e dalla Chiesa, della quale è ora a capo papa Leone X, membro della famiglia Medici.

Machiavelli continua poi con la denuncia della debolezza militare degli eserciti italiani, in mano a truppe mercenarie, vista come une delle cause della decadenza: bisogna che il principe si doti di un proprio esercito, composto di italiani e non di mercenari, in modo da poter sconfiggere le truppe francesi e svizzere, che hanno anch’esse i loro punti deboli.

Infine, segue l’esortazione rivolta ai Medici perché liberino l’Italia dagli stranieri, assicurando che il nuovo regnante sarebbe accolto da tutti a braccia aperte, per poi concludere con i celebri versi 93-96 della canzone Italia mia del Petrarca:

Virtù contro a furore prenderà l’arme; e fia el combatter corto; ché l’antico valor nelli italici cor non è ancor morto. Ovvero – la parafrasi: «la virtù (degli italiani) prenderà le armi contro il furore (degli stranieri); e il combattimento sarà breve, perché l’antico valore (che fu del popolo romano) nei cuori italiani non è ancora morto».

L’esortazione, che rivela il progetto politico del trattato e la sua prospettiva utopica, è scritta in uno stile vibrante e appassionato.

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