Al periodo che va dal 66 al 62 a.C. – gli anni nei quali Cicerone ricoprì le due più alte cariche dello Stato romano, la pretura nel 66 e il consolato nel 63 – appartengono importanti discorsi politici. Il momento più alto dell’oratoria politica ciceroniana in questo periodo è costituito dalle famose Catilinarie, quattro orazioni, due pronunciate in senato e due davanti al popolo, contro Lucio Sergio Catilina, ideatore e organizzatore di una congiura contro lo Stato.
Antefatto – Fallito per ben quattro volte il tentativo di farsi eleggere console, Catilina decise di prendere il potere con un colpo di stato. Già durante il mese di ottobre del 63 a.C., gruppi di ribelli si erano andati organizzando in varie regioni d’Italia e il Senato aveva dovuto prendere vari provvedimenti per difendere la sicurezza dello Stato. Ma nella notte tra il 6 e il 7 novembre si tenne la riunione decisiva dei congiurati, in cui furono messi a punto tutti i particolari del piano insurrezionale. Cicerone, informato da Fulvia (l’amante di Quinto Curio, uno dei congiurati), sventò l’attacco e l’8 novembre, nella seduta senatoria convocata nel tempio di Giove Statore sull’Aventino, pronunciò la prima delle quattro Catilinarie.
La prima Catilinaria è sicuramente quella più nota; essa comincia con una delle frasi più conosciute di tutta la letteratura latina: «Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?», «Fino a quando, o Catilina, abuserai della nostra pazienza?¹».
Ciò che vi proponiamo, dunque, di queste quattro Catilinarie è l’exordium, ovvero l’introduzione necessaria all’oratore per conquistare il consenso e la simpatia degli uditori.
Exordium, Prima Catilinaria, 1-2
Fino a quando, o Catilina, abuserai della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora il tuo folle comportamento si farà beffe di noi? Fino a che punto si scatenerà questa tua sfrontatezza che non conosce freno? Non ti fanno nessuna impressione né il reparto armato che di notte presidia il Palatino, né le pattuglie che svolgono servizio di ronda in città, né l’ansiosa preoccupazione del popolo, né il concorde accorrere di tutti i buoni cittadini, né questa sede così ben fortificata per la seduta del Senato, né l’espressioone del volto dei presenti? Non ti accorgi che le tue trame sono palesi? Non vedi che la tua congiura, conosciuta com’è da tutti i presenti, è ormai tenuta strettamente sotto controllo? Chi di noi, a tuo avviso, ignora cosa hai fatto la notte scorsa e quella precedente, dove sei stato, chi hai convocato, che decisione hai presa?
Che tempi! Che costumi! E il Senato comprende bene tutto ciò, il console lo vede: eppure costui è ancora in vita. In vita? Ma non basta! Si presenta perfino in Senato, partecipa alle deliberazioni di Stato e con lo sguardo indica, destinandolo alla morte, ognuno di noi. Noi invece, da uomini pieni di coraggio quali siamo, riteniamo di compiere il nostro dovere verso la patria soltanto se riusciamo a scansare le armi al servizio della follia di costui! È a morte, Catilina, che già da tempo si sarebbe dovuto condurti per ordine del console; è contro di te che si sarebbe dovuto rivolgere quel colpo mortale che tu già da un pezzo vai macchinando contro tutti noi.
Catilina, per nulla intimorito, reagì esortando a sua volta i senatori a non prestare ascolto a un inquilinus civis urbis Romae, a un inquilino dell’Urbe. Il giorno dopo, tuttavia, Catilina decise di abbandonare Roma per raggiungere l’esercito accampato in Etruria. Cicerone, nello stesso giorno, il 9 novembre, pronunciò la seconda delle quattro Catilinarie, stavolta al popolo riunito nel foro, per informarlo dei fatti accaduti nella notte.
Qualche giorno dopo Catilina, che aveva osato recarsi in Etruria con i fasci littori e con l’insegna delle legioni romane, fu proclamato dal Senato hostis publicus, nemico pubblico. Il console Antonio ebbe l’incarico di marciare contro di lui con un esercito. Intanto a Roma Cicerone riuscì a procurarsi le prove della congiura grazie al tradimento degli ambasciatori degli Allobrogi (bellicosa tribù celtica della Gallia): due seguaci di Catilina, infatti, Lentulo e Cetego, contattarono gli Allobrogi per chiedere l’aiuto della loro cavalleria. Gli Allobrogi decisero di raccontare i fatti a Cicerone e, su consiglio del console, e per le promesse ricevute, accettarono di prestarsi al doppio gioco; fecero credere di essere disponibilli e chiesero un accordo scritto.
La notte tra il 2 e il 3 dicembre Lentulo e Cetego, mentre si allontanavano da Roma per raggiungere Catilina, furono catturati e interrogati; consegnarono i documenti compromettenti con le firme dei congiurati e così Cicerone ebbe finalmente le prove da tempo ricercate.
La sera del 3 dicembre Cicerone pronunciò la terza delle quattro Catilinarie davanti al popolo, per informarlo degli ultimi eventi. Due giorni dopo, il 5 dicembre, si svolse in Senato un dibattito sulla sorte dei cinque complici di Catilina scoperti e arrestati. Il console Silano proponeva la condanna a morte, Cesare invece l’esilio a vita e la confisca dei beni.
Cicerone pronunciò a questo punto la quarta Catilinaria; sostenne anche lui la necessità della condanna a morte, ma si rimise alla volontà dei senatori. Fu risolutore poi l’intervento di Catone Uticense, pronipote di Catone il Censore, decisamente favorevole alla pena capitale.
I cinque congiurati la notte stessa furono strangolati nel carcere Mamertino. Cicerone ne diede notizia al popolo esclamando: Vixerunt, «hanno cessato di vivere».
Un mese dopo, il 5 gennaio del 62 a.C., si svolse la battaglia di Pistoia, che vide la definitiva sconfitta dei congiurati. Catilina morì combattendo valorosamente, «memore del lignaggio e dell’antica sua dignità», si legge nel capitolo 60 del Bellum Catilinae di Sallustio.
¹Le prime parole del celebre exordium, citate ancora oggi quando ci scagliamo contro chi ha messo a dura prova la nostra capacità di sopportazione, furono riprese da Sallustio, che fece pronunciare, forse con intento parodico, parole molto simili a Catilina: «Quae quousque tandem patiemini, o fortissumi viri?» (Bellum Catilinae, 20, 9); un evidente imitazione è pure nelle Metamorfosi di Apuleio (III, 27): «Quo usque tandem… cantherium patiemur istum», «Fino a quando sopporteremo questo cavallo castrato?».