In età repubblicana, la morte per crocifissione era una pena riservata agli schiavi, ai prigionieri di guerra e ai rivoltosi. Il pensiero va subito ai seguaci di Spartaco crocefissi lungo la via Appia nel 71 a.C. Chiunque viaggiasse tra Capua e Roma poté vedere per giorni, ai lati della strada, i corpi sulle croci straziati dagli animali predatori e dagli agenti atmosferici.
Fu solo nella prima età imperiale che la crocifissione si aggiunse ai castighi previsti dalla legge per gli uomini liberi (anche se di condizione sociale inferiore).
La condanna di morte per crocifissione
Il giudice, riconosciuta la colpevolezza e pronunciata la condanna, dettava il titulus, cioè la motivazione della sentenza. Il titulus era appeso al collo del condannato, con l’indicazione delle sue generalità.
Il condannato, prima di essere giustiziato, era frustato a sangue. Si utilizzavano strisce in cuoio o corda intrecciate con schegge di legno oppure ossicini di pecora che provocavano serie lacerazioni, ma non la morte, che doveva avvenire sulla croce.
Il condannato era poi condotto sul luogo dell’esecuzione. Questo era situato sempre fuori le mura cittadine.
La croce per la crocifissione
Spesso si trovava già piantato al suolo, in modo permanente, la parte verticale della croce, lo stipes («palo»). La parte orizzontale, il patibulum, era invece caricata sulle spalle del condannato, legata alle braccia. Il condannato la portava alla destinazione finale, dove si procedeva al vero e proprio montaggio della croce.
La morte per crocifissione: uno spettacolo per molti
Per i Romani, come per tanti altri popoli antichi e moderni, l’esecuzione capitale era anche uno spettacolo, che richiamava un gran numero di spettatori. Spesso la folla partecipava accanendosi sul condannato con insulti, percosse, pietrate.
Si è molto discusso se il reo fosse appeso con delle corde o inchiodato, ma l’uso dei chiodi è certo. I chiodi erano piantati nella linea di flessione del polso e non nel palmo della mano: le mani trafitte non potevano infatti reggere il peso del corpo.
Come avveniva la morte per crocifissione
La morte per crocifissione sopravveniva con estrema lentezza, per collasso cardiocircolatorio o per asfissia.
Per respirare infatti il condannato doveva far leva sulle gambe; quando per la stanchezza, per il freddo, per il dissanguamento causato dalle ferite inferte il condannato non poteva più reggersi sulle gambe, cominciavano le difficoltà respiratorie.
Poteva anche accadere che sul corpo del moribondo si accanissero gli animali selvatici, come gli sciacalli, i lupi e gli avvoltoi. Allora se si voleva alleviare le sofferenze del condannato e affrettarne la morte, il carnefice gli spezzava le braccia e le gambe, in modo da provocarne il soffocamento.
La pena della morte per crocifissione stabiliva anche che il corpo del condannato restasse all’aria aperta, e che i suoi resti si disperdessero. Poteva tuttavia accadere che i parenti della vittima prelevassero furtivamente il corpo per dargli degna sepoltura. Gli antichi attribuivano un’importanza enorme a questo aspetto, perché ritenevano che l’anima di un corpo insepolto fosse condannata a un’inquietudine eterna.
La morte per crocifissione fu abolita dall’imperatore Costantino agli inizi del IV secolo d.C. Sempre in questo periodo risale il presunto ritrovamento da parte di Elena, la madre dell’imperatore, della stessa croce di Gesù.
Le esecuzioni capitali nel diritto romano
Il diritto romano oltre alla morte per crocifissione prevedeva una grande varietà di esecuzioni capitali: la decapitazione, la fustigazione a morte, il rogo, la precipitazione dalla rupe Tarpea, la pena del sacco (inflitta a chi si era reso responsabile di parricidio. Il parricida era chiuso in un sacco assieme a un cane, un gallo, una vipera e una scimmia perché lo martoriassero mentre era trasportato su un carro fino al Tevere o al mare per esservi gettato), e altre ancora.