Darwinismo sociale e lotta per l’esistenza
Lo scienziato Charles Darwin (1809-82) sosteneva che il numero degli organismi viventi che nasce è superiore a quello che può vivere con le risorse disponibili. Quindi esiste tra i vari individui una continua lotta per poter sopravvivere. In questa lotta prevalgono i più adatti alle condizioni di vita in cui si trovano e trasmettono i loro caratteri ai loro discendenti.
Questa sopravvivenza del più adatto è la «selezione naturale»: come l’uomo seleziona artificialmente le specie animali e vegetali più utili ai suoi bisogni, modificandone le caratteristiche, così opera la natura, scegliendo per la riproduzione gli individui che nella lotta per l’esistenza hanno dei vantaggi sopra i concorrenti.
La dottrina darwiniana ebbe un’influenza enorme su tutto lo sviluppo scientifico e filosofico del secondo Ottocento ed ebbe un peso notevole anche nelle scienze sociali, dando origine a quel filone del pensiero sociologico che si definisce appunto “darwinismo sociale”.
Il darwinismo sociale tende a vedere la società umana regolata dalle stesse leggi del mondo animale e naturale, quindi dominata anch’essa dalla lotta per la vita, che assicura la sopravvivenza e il dominio al più forte.
In effetti la società umana nella sua storia millenaria è sempre stata caratterizzata da conflitti tra le varie classi sociali e il darwinismo sociale pone la lotta per la vita come legge assoluta di ogni forma di società possibile, in tutti i tempi e in tutti i luoghi.
Le tendenze di pensiero più reazionarie ne ricavano la conclusione che l’assetto sociale vigente, fondato sul dominio di una classe sulle altre, corrisponde alle leggi stesse di natura e non potrà mai essere modificato, o addirittura affermano la legittimità e la necessità del predominio del più forte sul più debole, respingendo quelle nozioni di uguaglianza e di democrazia maturate nel corso moderno della storia borghese, dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese in poi.
Queste teorie sono la manifestazione della profonda crisi attraversata dalla coscienza borghese nella seconda metà dell’Ottocento: viene meno la sicurezza di poter dominare concettualmente e praticamente tutta la realtà, la serena certezza in un futuro di pace, di equilibrio senza conflitti e sconvolgimenti, di giustizia, di benessere illimitato.
L’ideologia borghese perde quindi quei caratteri progressivi, tesi all’emancipazione dell’umanità intera, che possedeva durante le lotte rivoluzionarie, si chiude a difesa del dominio della classe egemone da ogni forza che possa contrastarlo e si riduce ad essere una semplice giustificazione dell’ordine vigente, o addirittura un’esaltazione dei suoi aspetti più negativi: la diseguaglianza, il trionfo della forza sul diritto, l’oppressione, lo sfruttamento, non più mascherati e taciuti, ma accettati apertamente come dati “naturali” e necessari a chi detiene il potere.