La donna romana nell’antica Roma viveva in una condizione di minorità pressocché continua, prima sotto la tutela del padre (o un altro membro maschio della famiglia), poi sotto quella del marito. La società romana, fondata sull’autorità del pater familias, era infatti fortemente maschilista.

Educata ai valori del pudore, della riservatezza e della modestia, in genere la donna romana andava sposa molto giovane, per lo più a un uomo scelto dalla famiglia (per un approfondimento leggi Nozze romane, il cerimoniale).
Compito principale della matrona era gestire la casa e generare figli educandoli ai valori del mos maiorum.

La sua vita si svolgeva soprattutto tra le mura domestiche, anche se poteva uscire a fare acquisti e partecipare ai banchetti insieme al marito (ma non le era però permesso bere vino e assistere al momento più animato della serata).

Questo quadro vale certamente per la donna romana di famiglia aristocratica; più variegata era la condizione della donna plebea, che non di rado lavorava come sarta, tessitrice, ostessa, venditrice, balia, lavandaia. Ancora diversa la condizione della schiava che dipendeva totalmente dal proprio dominus.

Se nella Roma arcaica la donna romana era un “eterna minorenne”, con il tempo si affermarono però alcune novità giuridiche. Non parliamo di diritti politici, perché la donna romana rimase sempre esclusa dalle cariche pubbliche e religiose (a parte eccezioni come le sacerdotesse della dea Vesta), ma di diritti civili.

Un primo segnale viene dall’evoluzione del diritto matrimoniale. Il matrimonio tradizionale a Roma era quello cum manus, che prevedeva il passaggio della donna sotto la potestà del marito. Dal II secolo a.C. si diffonde invece ampiamente il matrimonio con il consenso di entrambi i coniugi, detto sine manu, con il quale la donna romana non è più in una condizione di netta minorità giuridica.

Parallelamente cambia anche il divorzio. Nell’età arcaica esso era deciso dagli uomini, mentre dal I secolo a.C. diventa sempre più libero, frequente e deciso anche dalla donna (per un approfondimento leggi Matrimonio e divorzio a Roma).

Un’altra trasformazione investe il diritto ereditario. La donna romana ha fin dall’età arcaica il diritto di ereditare parte dei beni paterni, non però di fare essa stessa testamento. Le norme che riguardano le facoltà ereditarie e testamentarie della donna si affermano poco alla volta e sono di grande importanza, perché la disponibilità di un patrimonio costituisce, per una donna della buona società, la base concreta della sua emancipazione dal controllo maschile.

Formalmente l’antico concetto giuridico di tutela della donna sopravvive. Di fatto, però, dal I secolo a.C. esso appare in buona parte superato.

Nel contesto della sua normativa sulla famiglia e sulla moralizzazione della società – riassunta nella legge Giulia e Papia del 9 d.C.Augusto concede infatti l’esenzione dalla tutela alle donne che generano almeno tre figli.

In effetti, al tempo di Augusto si sono ormai fatti strada nuovi modelli femminili. Le donne sono più istruite e colte. I Romani non ritenevano negativo o inutile che la donna ricevesse un’istruzione, perché convinti che una donna istruita fosse una madre migliore. La donna romana, almeno quella appartenente ai ceti sociali elevati, riceveva perciò una formazione scolastica.
Tra le donne più istruite e colte vi sono la celebre Cornelia, madre dei fratelli Gracchi, o un’altra Cornelia, la moglie di Pompeo, capaci di animare circoli culturali.

Nel I secolo a.C.  vi sono donne della buona società che affermano la propria indipendenza; la propria libertà sentimentale e sessuale; che manifestano senza timori la distanza dai modelli della tradizione, suscitando lo scandalo e la riprovazione dei conservatori.

Le donne che non si conformavano al modello della matrona virtuosa sono dipinte come immorali e in qualche caso pericolose. Un esempio di questo atteggiamento si ritrova nel ritratto di Clodia (I secolo a.C.) la seducente Lesbia amata da Catullo (Cicerone ne fa un fosco ritratto nell’orazione Pro Caelio).

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