Il termine “fotografia” deriva dal greco phos, “luce”, e grapho, “scrivere”, ossia “scrivere con la luce”.
Alle origini della fotografia ci fu, nel 1837, un’invenzione straordinaria messa a punto da un’artista francese di nome Louis-Jacques-Mandé Daguerre (1787-1851): un procedimento capace di fissare le immagini della realtà su una lastra di rame argentato. La lastra fu chiamata “dagherrotipo” in onore del suo scopritore.
I dagherrotipi (che non si potevano duplicare) furono ritenuti ottimi strumenti per ricavare immagini e illustrazioni.
Con l’invenzione della fotografia il confronto tra immagine dipinta e immagine fotografica generò, soprattutto ai suoi inizi, accese polemiche.
Si diffuse infatti il timore che la fotografia potesse sostituirsi alla pittura, essendo più esatta e precisa.
In effetti molti incarichi prima affidati al pittore – ritratti, paesaggi, illustrazioni – passarono al fotografo.
I fotografi, a loro volta, subirono profondi condizionamenti dalla pittura. Ciò è riscontrabile soprattutto nel ritratto. Qualche volta arrivano a tal punto nell’imitazione della pittura da “colorare” ad acquerello la stampa fotografica.
Allo stesso tempo molti pittori, da Delacroix a Courbet, a Manet, a Degas, a Toulouse-Lautrec, ne compresero le potenzialità in rapporto alla pittura: l’immagine fotografica riproduce il vero con fedeltà e rende “concreto” ogni effetto chiaroscurale, facendo scoprire qualità nascoste del soggetto.
In pochi anni dalla sua nascita, al suo uso documentario si affiancò quello espressivo: si scoprì la possibilità di modificare l’immagine, di esaltarne alcuni particolari o di eliminarne altri. La fotografia divenne così una forma d’arte, e come tale fu presentata all’Esposizione di Belle Arti, a Parigi, nel 1859.
Il dagherrotipo fu successivamente sostituito dalle più pratiche fotografie stampate su carta albuminata (trattata con vari prodotti tra cui l’albume delle uova). Queste stampe erano incollate su cartoncini di piccolo formato, chiamati Carte de visite: fotografie delle stesse dimensioni dei biglietti da visita che iniziano a diffondersi in grande verso il 1850. Montate in diverse dozzine su cartoncino, a seconda del soggetto (ballerine, regnanti, attori), esse rappresentano un vero e proprio “teatro della visione”, dove i personaggi ritratti rispondono a un codice di simulazioni, di gesti, di movimenti. Si racconta che il famoso Adolphe-Eugène Disdéri (1819-1890) guadagnasse somme enormi con le sue celebri serie, dove i personaggi compaiono in pose consequenziali per dare maggiore senso di naturalezza.
Il rapporto fra arte e fotografia si fa più stretto con l’affermarsi della pittura impressionista. Félix Nadar (1820-1910), che ospita nel suo studio in Boulevard des Capucines la prima mostra degli impressionisti nel 1874, «eleva la fotografia all’altezza dell’arte», come recita una vignetta del tempo. E mentre famosi personaggi dell’epoca accorrono a lui per farsi ritrarre, l’intrepido fotografo scatta le celebri vedute di Parigi da una mongolfiera, guadagnadosi una citazione di Giulio Verne nel romanzo Dalla terra alla luna con il nome di Ardan.
Il pittore francese Edgar Degas (1834-1917), che si dedicò personalmente alla fotografia a partire dal 1895 circa, si interessò dapprima alle nature morte fotografiche, cercando in esse indicazioni per le sue pitture di interni; successivamente egli tradusse la casualità e l’asimmetria delle immagini fotografiche nelle inquadrature “aperte” dei suoi dipinti. L’artista, inoltre, cercava di cogliere il movimento della figura partendo dallo studio dei suoi gesti in ogni istante. Per questo fu colpito dalle fotografie in sequenza dello statunitense Edward Muybridge.
Questa fotografia mise a nudo gli errori di pittori e scultori nella rappresentazione di un cavallo in corsa, di cui nessuno aveva potuto mai fissare il corretto coordinamento degli arti.