Il brigantaggio fu un fenomeno fortemente diffuso nell’Italia postunitaria. Si trattò di un fenomeno complesso, nel quale trovarono sfogo molti problemi del Meridione che il governo, affidato alla Destra storica (la corrente liberale che si riconosceva nelle posizioni di Cavour), non sapeva come affrontare.
Le cause del brigantaggio
All’inizio gran parte della popolazione meridionale aveva accolto favorevolmente il processo di unificazione, ma il nuovo Regno d’Italia deluse le loro aspettative, generando nuove situazioni di disagio.
Tra le principali cause c’era l’irrisolta questione della redistribuzione della terra: la riforma agraria promessa al tempo della spedizione dei Mille si era risolta in un inganno. Infatti i molti terreni requisiti alla Chiesa erano stati messi in vendita a prezzi troppo alti, passando di fatto nelle mani della nobiltà e della borghesia terriera.
A questo si erano poi aggiunte la nuova pesante fiscalità e la leva militare obbligatoria osteggiate duramente dal mondo contadino. Rapidamente i disordini si fecero più estesi e più frequenti, fino a trasformarsi in una generale insorgenza, incoraggiata da una parte del clero e finanziata dalla corte borbonica in esilio a Roma, che ancora sperava di riconquistare il regno perduto.
Chi erano i briganti
I briganti erano riuniti in bande armate, che avevano una composizione eterogenea. Erano costituite infatti da veri briganti abituati a sequestrare e uccidere; da ex soldati borbonici e piccoli proprietari terrieri che cospiravano per un ritorno dei Borbone; da contadini in rivolta.
Le bande assalivano di preferenza le fattorie dei possidenti e politici locali; incendiavano gli archivi comunali con le liste della leva; aprivano le porte delle carceri. Quindi si ritiravano sulle montagne per attaccare subito dopo altrove.
I briganti avevano anche il supporto delle donne. Esse trasmettevano notizie, procuravano il cibo alle bande, curavano i feriti. Passavano anche all’azione, come nel caso di Michelina De Cesare (1841-1868) la «brigantessa», compagna di un capobanda, Francesco Guerra, un ex soldato borbonico.
Le conseguenze
A queste aggressioni, il governo reagì con spietata energia. In primo luogo con rappressaglie indiscriminate compiute dall’esercito: come quella di Pontelandolfo, nei pressi di Benevento, dove nell’agosto 1861 furono uccisi 400 civili e venne incendiato il paese.
Nel 1862 venne proclamato la stato d’assedio, che subordinava ogni autorità civile a quelle militari. Nel 1863 il Parlamento approvò la legge Pica (dal nome del deputato liberale abruzzese Giuseppe Pica) che istituiva tribunali militari per giudicare i briganti e i loro complici; fucilazione immediata per chi avesse opposto resistenza con le armi; prometteva forti sconti di pena a chi invece si fosse costituito entro un mese dalla sua entrata in vigore; autorizzava l’arruolamento di squadre locali di volontari per combattere il brigantaggio.
La repressione del brigantaggio da parte dello Stato unitario fu particolarmente cruenta. Secondo cifre dedotte dai documenti del ministero della Guerra e della Camera dei deputati, tra il 1861 e il 1865 furono uccisi (in combattimento o fucilati) 5212 briganti. Cifra ufficiale, probabilmente approssimativa per difetto, cui vanno aggiunti gli oltre 5000 arresti.
Le classi dirigenti considerarono il brigantaggio un problema criminale e morale e tesero a ridurne la portata politica. La recente storiografia ha invece paragonato il brigantaggio e la reazione dello Stato unitario ad una vera e propria guerra civile.
Il brigantaggio rappresentò la prova più tangibile dell’esistenza di una questione meridonale, destinata ad alimentare un lungo e ancora vivo dibattito.