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Canto 26 Inferno riassunto e commento

Il Canto 26 Inferno della Divina Commedia di Dante si svolge nell’ottava bolgia, nell’ottavo cerchio dell’Inferno, dove si trovano i consiglieri di frode.

Cosa succede nel canto 26 dell’Inferno?

Ecco gli argomenti del Canto 26 dell’Inferno:

  • Invettiva contro Firenze (vv. 1-12)
  • La bolgia dei consiglieri di frode (vv. 13-48)
  • Ulisse e Diomede (vv. 49-84)
  • Racconto dell’ultimo viaggio di Ulisse (vv. 85-142)

Inferno Canto 26: Invettiva contro Firenze (vv. 1-12)

Come dirà subito dopo, Dante ha incontrato (nel canto 25) cinque ladri fiorentini. Di qui la sarcastica invettiva sulla corruzione di Firenze con cui si apre il canto 26: la città può davvero vantarsi della fama che ha acquistato non solo in tutta la Terra, ma anche all’Inferno, tante sono le sue colpe.

I cinque ladri fiorentini hanno fatto vergognare il poeta e Firenze non ne guadagna certo in onore. Ma se è vero che i sogni fatti poco prima dell’alba sono destinati ad avverarsi, Firenze subirà le catastrofi che le città vicine, a partire da Prato, le augurano.

Dante stesso si augura che giungano presto, poiché col passare degli anni, la situazione gli appare sempre più insostenibile.

Inferno Canto 26: La bolgia dei consiglieri di frode (vv. 13-48)

Dante e Virgilio si trovano ora nell’ottavo cerchio dell’Inferno.

Tutto l’ottavo cerchio risplende di innumerevoli fiammelle, tante quante sono le lucciole che il contadino scorge nel fondo della valle nelle notti d’estate. Ognuna di queste fiamme racchiude in sé e nasconde alla vista un peccatore, nello stesso modo in cui la nube di fuoco vista innalzarsi al cielo da Eliseo nascondeva il carro del profeta Elia.

Qui si trovano i consiglieri di frode: come in vita ingannarono gli altri con consigli falsi e interessati, alimentando le fiamme della discordia, così ora vagano senza pace avvolti in una fiamma che li nasconde alla vista.

La colpa che qui si punisce è il cattivo uso dell’ingegno, adoperato per conseguire con frode il trionfo del singolo, del partito o dello stato; insomma l’astuzia e la malizia politica, e, più generalmente, l’abuso dell’intelligenza in contrasto con le norme morali e religiose.

L’atteggiamento di Dante è assai lontano dal disprezzo o addirittura dalla ripugnanza che aveva mostrato per gli altri fraudolenti, e il giudizio si fa perplesso, complicato, drammatico: l’eccellenza dell’ingegno è un dono di Dio, un privilegio, che deve essere custodito e tenuto a freno con infinita cautela. In quest’atmosfera di alta meditazione morale si colloca e deve essere inteso anche l’episodio di Ulisse.

Canto 26 Inferno: Ulisse e Diomede (vv. 49-84)

Dante, incuriosito da una fiamma che a differenza delle altre ha due punte, chiede spiegazioni a Virgilio. Virgilio spiega che in essa sono racchiuse insieme le anime di Ulisse e Diomede. Sono compagni di audaci imprese, ma anche autori di terribili inganni, come quello del cavallo di legno, che provocò la distruzione di Troia; il furto del Palladio (la statua di Atena, protettrice di Troia, custodita nella rocca della città); la scoperta di Achille travestito da donna per non andare in guerra (per sottrarre il figlio Achille, che sapeva destinato a morte precoce, la madre Teti lo nascose alla corte di Sciro, facendolo travestire da ragazza. Ma Ulisse seppe aggirare l’inganno e portare con sé l’eroe in guerra).

Dante desidera parlare con i dannati racchiusi nella fiamma a due punte. Virgilio lo invita a tacere e a lasciare che sia lui a rivolgersi loro: egli ha narrato di Ulisse e Diomede nel II Libro dell’Eneide contribuendo alla loro fama; ha dunque acquisito meriti presso di loro e in nome di questi li prega di rispondere (Virgilio ha intuito che la curiosità di Dante va all’ultimo viaggio di Ulisse).

Inferno Canto 26: Racconto dell’ultimo viaggio di Ulisse (vv. 85-142)

Interrogato da Virgilio, Ulisse narra ora come è morto. Tornato a Itaca, egli non vi si può trattenere, tanto grande è il desiderio di conoscere quella parte del mondo che non ha ancora visto. Vuole tentare un’impresa mai prima affrontata da alcuno: superare le Colonne d’Ercole (le Colonne d’Ercole sono un’allegoria dei limiti imposti alla conoscenza umana: volerli superare è, per la cultura medievale, un peccato contro l’ordine naturale voluto da Dio).

L’impresa non spaventa né lui né i pochi compagni rimasti che, anzi, si sentono inorgogliti dalla proposta, presto trasformata in realtà.

Lasciatisi alle spalle i luoghi conosciuti del Mediterraneo occidentale, essi affrontano l’Oceano sconosciuto. Dopo circa cinque mesi, giungono in vista di una lontana montagna di cui non distinguono con precisione i contorni (in realtà è la collina del Purgatorio). Mentre si rallegrano di essere giunti in prossimità della terraferma, un’improvvisa tempesta risucchia l’imbarcazione con il suo equipaggio in un profondissimo vortice che, dopo averli inghiottiti, si richiude su di loro.

Com’è facile intuire, Dante non si ispira all’eroe omerico dell’Iliade e dell’Odissea. Dante, infatti, ignorava senza dubbio i poemi omerici perché non potevano essere giunti a lui, ma si rifà ad altre leggende diffuse al suo tempo, che narravano come la sete di conoscenza di Ulisse lo avesse spinto al punto da fargli dimenticare i suoi doveri e gli affetti familiari.

Magnanima senza dubbio e ammirevole la sete inesausta di virtù e di conoscenza di Ulisse, per cui l’uomo si distingue dal bruto, la sua ardente ansia di «divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore». Senonché l’impresa era di quelle a cui non basta il soccorso dell’umana ragione, e a compierla si richiedeva l’aiuto, a lui negato, della Grazia: dunque un «folle volo», un eccesso di confidenza e un abuso del dono dell’intelligenza.

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