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Pena di morte in Italia e nel mondo

La pena di morte esiste dall’inizio dell’umanità, più o meno in tutte le società, come la tortura e la schiavitù.

Nel mondo antico

In genere nel mondo antico si ricorreva alla pena di morte in casi di lesa maestà o alto tradimento; per omicidio, sacrilegio o per altri crimini che in qualche modo potevano rappresentare un pericolo per l’equilibrio dell’intera società.

La prima testimonianza scritta dell’uso della pena di morte è rappresentata dal Codice di Hammurabi.

Anche gli Egizi usavano infliggere la pena di morte. Al contrario di quanto stabilito dal Codice di Hammurabi, nell’antico Egitto le sentenze erano però uguali per tutti, indipendentemente dalla posizione sociale o situazione economica. Solitamente le esecuzioni erano eseguite per annegamento del reo nel fiume Nilo, rinchiuso in un sacco o mediante decapitazione.

Presso le civiltà precolombiane (Maya, Aztechi, Inca) il furto era punito con la schiavitù e l’omicidio con la morte, se il colpevole non era in grado di risarcire adeguatamente i parenti della vittima. Anche l’adulterio, considerato un reato contro la proprietà, era punito con la morte; ma ad essere punita non era la moglie, bensì il suo seduttore. Egli, consegnato al marito, era da questi ucciso, gettandogli dall’alto un grande masso sul capo.

Anche nell’antica Grecia era praticata la pena di morte.

La società romana si distinse per la varietà dei metodi con cui uccideva legalmente chi era giudicato colpevole.
L’infamia di chi aveva commesso un grave reato era resa pubblica attraverso la cosiddetta «passeggiata ignominiosa»: il condannato con le mani legate dietro la schiena, attraversava a piedi la città mentre era percosso, frustato, insultato e preso a sassate dai cittadini. Il condannato giungeva quindi nel luogo dell’esecuzione; qui il magistrato recitava una solenne formula di legge e ordinava il taglio della testa, la forma di esecuzione più diffusa.

L’esecuzione della pena di morte era un fatto pubblico, destinato a mostrare a tutti come lo Stato punisse chi compiva gravi delitti e come riuscisse a tutelare l’ordine costituito; inoltre assumeva il caratterre di uno spettacolo. La spettacolarizzazione della messa a morte era evidente nella cosiddetta «condanna alle belve» (damnatio ad bestias), che si svolgeva negli anfiteatri cittadini. Verso mezzogiorno i colpevoli, con le mani legate dietro la schiena, erano condotti dentro l’arena e qui erano divorati vivi da leoni, tigri o altri animali selvatici affamati. Sempre negli anfiteatri si eseguivano anche altri tipi di esecuzione, come quella mediante il rogo.

La pena di chi commetteva un alto tradimento, stuprava una vergine vestale o faceva malefici era il cosiddetto «albero infelice». Il condannato era legato saldamente a un palo a forma di Y, con il collo bloccato nel punto della biforcazione, e quindi fustigato fino alla morte. I traditori potevano anche essere fatti precipitare dalla Rupe Tarpea, uno strapiombo a ridosso del Campidoglio.

A chi uccideva i propri genitori era riservata la «pena del sacco». Consisteva nel frustare a sangue il colpevole, metterlo poi ancora vivo in un sacco impermeabile insieme con un cane, una vipera e una scimmia, cucire il sacco e buttarlo in mare. Ancora oggi non è chiaro il significato simbolico degli animali presenti nella pena, mentre il sacco doveva servire a isolare il cadavere dell’omicida dall’aria, dalla terra e dall’acqua, così da non contaminare la natura. La gravità del reato era sottolineata dal fatto che la testa del condannato era avvolta con un cappuccio di pelle di lupo, che indicava la sua appartenenza al mondo animale e non più a quello degli esseri umani.

La pena di morte romana più tristemente famosa resta il supplizio della crocifissione. In un primo momento riservata solo agli schiavi (durante la rivolta guidata da Spartaco ne furono crocefissi 7000 lungo la via Appia); in età imperiale fu estesa anche ai liberi (per un approfondimento leggi Come avveniva la morte per crocifissione clicca qui).

Pena di morte in Italia

Nel 1764 il letterato ed economista Cesare Beccaria pubblicò un libro divenuto famoso, Dei delitti e delle pene. Per primo si espresse contro la pena di morte (e la tortura), giudicandola non soltanto un’usanza barbara e incivile, ma anche inutile rispetto allo scopo che si vuole prefiggere, cioè la difesa della società dai criminali.

L’opera incontrò un notevole successo ed ebbe vasta eco in tutta Europa. La Milano di quell’epoca l’apprezzò; La Francia la vide come un segno di progresso; la zarina Caterina II di Russia la mise subito in pratica.

Sull’onda del successo di questa proposta di riforma giudiziaria, il Granducato di Toscana abolì per prima la pena di morte, il 30 novembre 1786.

Stessa decisione prese il Regno d’Italia nel 1889. Durante il fascismo però la pena di morte fu reintrodotta (1931). Fu dichiarata inamissibile nel 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione italiana.

La pena di morte rimase in vigore nel solo codice penale militare di guerra; ma prima nel 1994, con una legge ordinaria, e poi nel 2007, con una legge costituzionale, è stata definitivamente cancellata dagli ordinamenti italiani. L’articolo 27 della Costituzione recita infatti: «Non è ammessa la pena di morte».

Pena di morte nel mondo

Dove è applicata oggi la pena di morte?

Per rispondere a questa domanda si possono dividere i Paesi del mondo in tre gruppi.

Il primo gruppo è formato da quei Paesi che hanno abolito la pena di morte e comprende quasi tutta l’Europa, il Canada, l’Australia e alcuni Stati africani e latino-americani; in pratica tutto il mondo occidentale con l’eccezione degli Stati Uniti.

Il secondo gruppo include quei Paesi che prevedono ancora la teorica possibilità di comminare la pena capitale, ma in pratica non effettuano esecuzioni da molti anni. Ne fanno parte la Russia e altri Stati dell’Europa orientale; buona parte dell’America latina (tra cui Brasile e Argentina); alcuni Stati dell’Africa occidentale.

Il terzo gruppo è formato da quei Paesi in cui la pena di morte è in vigore ed è applicata. Comprende la Cina, l’India, il Giappone e gli altri Stati dell’Estremo Oriente; tutti i Paesi arabi e islamici e molti stati dell’Africa orientale. Fanno parte di questo gruppo anche gli Stati Uniti, anche se la pena di morte non è applicata in tutti gli Stati dell’Unione (la scelta in materia è lasciata ai singoli Stati che compongono gli Usa, non al governo federale).

Il cammino verso la piena e totale cancellazione della pena di morte dal mondo è ancora lungo e il dibattito tra fautori e contrari non è spento. Sull’opportunità o meno della pena capitale l’opinione pubblica è infatti da sempre divisa, anzi addirittura spaccata.

Pena di morte pro e contro

I pro

Coloro che ne sostengono l’utilità spiegano di solito la loro posizione con due affermazioni:

  1. La pena di morte è la giusta punizione per chi, a sua volta, ha inflitto la morte; risponde a un innato senso della giustizia che esige una punizione esemplare per chi si è macchiato del peggiore dei delitti.
  2. Ha un valore esemplare e serve a dissuadere altre persone dal macchiarsi di orribili delitti per paura di subire un castigo così severo. A volte, si aggiunge che essa è adottata da sempre, in ogni tempo, e che, in questo senso, è un po’ simile alla guerra: tutti sono d’accordo che sia una sciagura, ma in determinati casi diventa inevitabile.

I contro

Coloro che, invece, si schierano per l’abolizione della pena di morte rispondono con queste argomentazioni:

  1. Se vogliamo avere il diritto di giudicare il nostro prossimo, dobbiamo essere migliori di lui: punire chi ha ucciso mandandolo a morte significa mettersi sul suo stesso piano e non avere, perciò, il diritto di giudicarlo.
  2. La pena di morte non funziona affatto come deterrente: le percentuali di omicidi sono più alte negli Stati che la mantengono rispetto a quelli che l’hanno abolita. Si può dunque affermare che non c’è nessun legame tra il rischio di subire una condanna a morte e l’impulso a commettere un omicidio.
  3. La funzione della Giustizia non è quella di punire, quanto quella di «recuperare» chi ha sbagliato anche attraverso la detenzione, ma allo scopo di reinserirlo nella società. Non si tratta tanto di fargli scontare una pena, quanto di dargli una possibilità di ravvedersi e di iniziare una nuova vita. La pena di morte non consente certo tutto ciò e risulta quindi non soltanto crudele, ma anche inadeguata.

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