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La peste di Albert Camus, riassunto e commento

La peste di Albert Camus fu pubblicato nel 1947, ma l’autore vi lavorava dal 1941.

Il romanzo di Camus si presenta come una cronaca dei fatti avvenuti tra l’aprile e il dicembre del 194… a Orano, anonima città della costa algerina, ancora sotto il dominio francese.

Il cronista è un testimone autorizzato a fare lo storico dal possesso di numerosi documenti: deposizioni, confidenze, testi, oltre alla propria partecipazione agli avvenimenti da protagonista. Descrive parallelamente la parabola dell’epidemia, il comportamento degli abitanti e la lotta organizzata da alcuni di essi contro il flagello.

La peste di Albert Camus – la trama

Improvvisamente, mentre la vita cittadina scorre meccanicamente nella sua banale quotidianità, una quantità sempre maggiore di topi va a morire per le strade della città.

Mentre i cittadini accusano le autorità, i topi scompaiono del tutto e molti uomini si ammalano di febbre inguinale. Si hanno le prime morti e, nonostante l’aumento dei casi, la stampa cessa dopo qualche tempo di interessarsene: il fenomeno non fa più notizia.

Il dottor Bernard Rieux è sempre più preoccupato e si convince che si tratta di peste dopo un confronto con l’amico Castel, che si è misurato con quella malattia facendo il medico in Cina.

Intanto scoppia l’epidemia (fino a ventidue morti in un solo giorno) e la cittadinanza è in preda al panico. Da Parigi arriva l’ordine di chiudere le porte della città.

La vita diventa difficile. Il padre gesuita Paneloux, che giudica la peste una punizione divina, tuona dal pulpito contro i peccati degli uomini. Rieux ingaggia una lotta disperata per la vita e, dietro consiglio di Tarrou, un ex militante politico, organizza squadre di volontari. Il giornalista Raymond Rambert, che potrebbe tornare a Parigi, decide di restare per dare il proprio contributo.

Castel sperimenta un vaccino che Rieux prova, senza risultato, sul figlio del giudice Othon. I morti ormai non si contano più.

Quando tutto sembra perduto cominciano però le prime incomprensibili guarigioni e le statistiche registrano finalmente un regresso della malattia. Ma, mentre il siero dà prova di un’insperata efficacia, la peste, nei suoi ultimi sussulti, continua a colpire. Muoiono, tra gli altri, la moglie di Rieux e Tarrou. Ma finalmente la peste è sconfitta, la città di Orano riapre le porte e i suoi abitanti si abbandonano di nuovo al sonno dell’inconscienza.

A questo punto il cronista rivela la propria identità: è il dottor Rieux, protagonista della vicenda, che ha voluto lasciare una testimonianza.

La metafora della peste nel romanzo di Albert Camus

Il romanzo La peste di Camus è, al di là della sua trama, una vasta allegoria della condizione umana analizzata attraverso la descrizione di una città isolata da una epidemia.

A Orano, città dell’Africa settentrionale, scoppia improvvisamente la peste, accompagnata da una disgustosa moria di topi. L’insorgere di una malattia che sembrava debellata da secoli scuote la popolazione dal consueto torpore e provoca le più svariate reazioni.

Protagonista e io-narrante della vicenda è Rieux, un medico che combatte il dilagare dell’epidemia. È sorretto da uno spirito di solidarietà umana che gli fa superare ogni tipo di sofferenza fisica e morale.

Con diversa prospettiva ideologica ma uguale fine, si impegnano contro il contagio uomini di religione come il padre Paneloux o di scienza come il dottor Castel, nonché personaggi apparentemente cinici come l’intellettuale Tarrou.

A un certo punto, di fronte alla crudeltà di una morte che non risparmia nessuno, si fa strada la convinzione che la peste, al di là del fatto patologico, sia una malattia morale che ogni gruppo sociale cova in sé, alimentandola con l’odio delle passioni politiche, con l’indifferenza degli uni verso gli altri e con l’ingiustizia che paralizza il corso delle libere istituzioni.

La chiusura delle porte d’accesso a Orano, resasi necessaria per cercare di bloccare la diffusione del contagio, simboleggia dunque il ghetto in cui tutti gli uomini vivono la loro disperata prigionia, senza che calore o simpatia umana riescano a spezzare questa catena di dolore.

Alla fine, dopo il bilancio dell’epidemia che ha risparmiato, fra le figure-chiave, il solo Rieux, emerge la tesi che l’unica salvezza dell’uomo sta nella solidarietà: i sani (ovvero i buoni, i liberi) hanno l’obbligo di testimoniare la propria umanità lottando accanto agli appestati (i cattivi, i non-liberi). E se è vero che «il bacillo della peste non muore mai», solo così si dimostra che «ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare».

 

 

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