La peste di Atene è una delle prime epidemie della storia. Si abbatté su Atene durante il secondo anno della Guerra del Peloponneso. Condizionò, almeno all’inizio, il risultato di essa, perché decimò l’esercito e la popolazione e i peloponnesiaci approfittarono della sciagura per saccheggiare l’Attica.
Pare che l’epidemia, che si diffuse nella città sovraffollata di profughi, incominciò in Etiopia. Non è ben chiaro di quale malattia si trattasse. Generalmente si parla di peste, ma i sintomi non sono quelli della peste bubbonica; forse si trattava di vaiolo o di tifo o di una forma particolarmente virulenta di morbillo, ma era comunque una malattia contagiosissima e ignota ai medici dell’epoca.
La malattia uccise Pericle e anche lo storico greco Tucidide ne fu colpito ma riuscì a sopravvivere. Quest’esperienza gli consentì di descrivere con precisione la malattia all’interno della sua opera storica La guerra del Peloponneso.
Grazie alla scienza medica fondata proprio allora da Ippocrate, lo storico Tucidide poté avvalersi di un lessico estremamente esatto, preciso, realistico, distaccato fino alla freddezza per descrivere la peste di Atene, distinguendo tra cause, sintomi e conseguenze psicologiche della malattia, sia in ambito individuale che sociale.
Tucidide – La peste di Atene
Cause – Dapprima a quanto si dice la peste incominciò in Etiopia […]. Gli ateniesi sostennero che i peloponnesiaci avevano gettato dei veleni nei pozzi.
Sintomi – Le persone venivano prese da vampate alla testa, arrossamento e bruciore agli occhi […]. Il male scendeva al petto con una forte tosse; e quando raggiungeva lo stomaco provocava spasmi, svuotamenti di bile e forti dolori […]. Il corpo […] era come fiorito di piccole pustole e di ulcere.
Conseguenze – La peste segnò per la città l’inizio del dilagare della corruzione. Ciò che prima si faceva, ma solo di nascosto, per proprio piacere, ora lo si osava più liberamente […]. Vi erano ricchi che morivano all’improvviso, e gente, che prima non aveva niente, da un momento all’altro si trovava in possesso delle ricchezze appartenute a quelli, per cui ci si credeva in diritto di abbandonarsi a rapidi piaceri, volti alla soddisfazione dei sensi, ritenendo un bene effimero sia il proprio corpo che il proprio denaro. Nessuno era più disposto a perseverare in quello che prima giudicava fosse il bene, perché – pensava – non poteva sapere se non sarebbe morto prima di arrivarci; invece il piacere immediato e il guadagno che potesse procurarlo, quale che fosse la sua provenienza, ecco ciò che divenne bello e utile. La paura degli dei o le leggi umane non rappresentavano più un freno.