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La signorina Felicita ovvero la felicità, di Gozzano

La signorina Felicita ovvero la felicità è ritenuto il capolavoro di Guido Gozzano e forse dell’intero Crepuscolarismo. Ve ne diamo l’analisi e il commento.

Il poemetto La signorina Felicita ovvero la felicità, in sestine di endecasillabi (con rime ABBAAB), fu pubblicato per la prima volta sulla «Nuova Antologia» il 16 marzo 1909 e poi confluito nella seconda edizione de I colloqui, intitolata Alle soglie.

Nel giorno di Santa Felicita, 10 agosto (la data sul calendario con il nome di Santa Felicita è l’occasione che il poeta immagina gli abbia ispirato la poesia), Gozzano ripensa con nostalgia al semplice e delicato idillio amoroso da lui intrecciato in un paesino del Canavese (una zona a nord di Torino) con una cara e buona ragazza, non bella e non colta, ma ricca di sensibilità e di gentilezza, la signorina Felicita.

Il poeta rievoca i momenti più importanti di quel breve e ingenuo idillio: momenti fatti di niente, eppure carichi di tenerezza e di incanto. Tuttavia l’idillio sentimentale nato tra il poeta e la signorina Felicita viene bruscamente interrotto, in parte per opportunità sociale, in parte perché al poeta è in realtà negato l’abbandono ai facili sentimenti romantici.

La signorina Felicita: analisi delle parti I-III

La prima parte, in cui il poeta si rivolge direttamente alla donna, introduce il motivo della memoria: al crepuscolo (a quest’ora… sera), Gozzano rievoca con affetto (cuore amico) Villa Amarena, la casa della signorina Felicita situata nel Canavese. Lì, la signorina Felicita è colta mentre è intenta alle attività domestiche che costituiscono la sua vita. Prosegue con la ricostruzione della casa in cui vive la ragazza: la villa con i suoi alberi, il suo fantasma, l’orto, il muro di cinta. La villa porta con sé i segni di un lontano passato: di qui il senso di tristezza, di «abbandono desolato», quasi di morte, che costituisce il fascino dell’edificio, la sua suggestiva e indefinibile bellezza.

Nella seconda parte il padre di Felicita cerca di ottenere dal suo ospite dei consigli legali, ma Gozzano ascolta la lettura del vecchio atto notarile distratto dall’ambiente, da piccoli particolari che suscitano in lui emozioni e gli impediscono di capire i problemi ipotecari su cui viene interpellato. L’arrivo di Felicita lo cava infine di impaccio.

Nella terza parte troviamo il celebre ritratto della signorina Felicita. È tutto condotto su una serie di notazioni negative («quasi brutta», «priva di lusinghe», «vesti quasi campagnole», «faccia… casalinga», «beltà fiamminga», «bocca… larga», «volto quadro, senza sopracciglia», «occhi fermi») che sembrano prevalere su quelle positive («faccia buona», «bei capelli», «bocca vermiglia», «iridi sincere azzurre»). L’impressione che ne deriva però è quella di un’immagine di donna carica di simpatia nella sua semplicità e umiltà: infatti, se i due paragoni con le beltà fiamminghe e con l’azzurro delle stoviglie, invece di impreziosire la figura di Felicita, ne sottolineano, il primo, l’aspetto inelegante, il secondo l’inscindibile legame con il mondo casalingo, e sono quindi sottilmente ironici, a un esame più attento le connotazioni negative appaiono per lo più sfumate («quasi brutta», «vesti quasi campagnole») o controbilanciate da un elemento positivo (faccia casalinga ma buona, bocca larga ma vermiglia) o interpretabili positivamente, soprattutto nel contrasto con quell’ideale di bellezza femminile raffinata ma falsa a cui il poeta era abituato. Così, nella descrizione, «priva di lusinghe» equivale ad aperta, sincera; la bocca «larga nel ridere e nel bere» è sì inelegante, ma anche un segno di quella spontaneità che le bellezze cittadine hanno perso; così, le sopraccigllia non segnate dal trucco sono una testimonianza di genuinità e gli occhi sostengono «fermi» lo sguardo perché non hanno nulla da nascondere, e anche l’umile azzurro dello stoviglie può essere interpretato positivamente, come un’immagine di pulizia e di limpidezza nella sua coloristica suggestione.

Dopo la semplicità e l’ingenuità di Felicita il poeta dipinge la sua femminilità e il suo gioco di schermaglie amorose («blandizie femminina», «civettavi con sottili schermi», «volevi piacermi», «tuo voler piacermi») chiarissime al poeta che ne sorride, ma con tenerezza lusingato dal fatto che questa fanciulla, tanto lontana dal suo mondo e tanto sincera, sia attratta da lui.

Questo idillio amoroso, fatto di silenzi («tu tacevi, tacevo») tra la signorina Felicita e il poeta si svolge in un semplice interno di cucina. Un simile ambiente non è stato scelto a caso da Gozzano: egli, infatti, lo contrappone ironicamente agli ambienti raffinati prediletti da un romanziere e poeta come D’Annunzio.

La signorina Felicita: analisi delle parti IV-V

Nella quarta parte la scena si sposta nel solaio di Villa Amarena. L’ambientazione nel solaio è tipica del crepuscolarismo, che amava i luoghi polverosi e le cose abbandonate per il loro suggestivo richiamo al passato. Osservando il paesaggio dalla finestra della soffita, il poeta medita sulla vanità dell’affannarsi degli uomini. Queste riflessioni vengono interrotte dalla signorina Felicita: è tardi, è già ora di cena, bisogna scendere.

Nella quinta parte la scena si sposta nel giardino saturo di elementi nobilitanti e di atmosfere decadenti. Le statue che simboleggiano le stagioni testimoniano l’antico splendore della villa, ormai venuto meno: esse sono infatti logorate dal tempo e si ergono in mezzo a resti animali e vegetali, in prossimità di un orto, in cui si coltivano i porri e l’insalata.

La signorina Felicita: analisi delle parti VI-VIII

La sesta parte è occupata dal sogno del poeta di poter vivere accanto a Felicita. La Signorina Felicita rappresenta così una possibilità di evasione, l’ultima speranza di potersi riappropriare di una vita autentica e felice (fin dal titolo è sottolineata la corrispondenza Felicita-felicità), che la letteratura ha contribuito ad allontanare sempre di più («rinnegherei la fede letteraria / che fa la vita simile alla morte…», vv. 300-301; «Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!», vv. 306-307). Anche la letteratura infatti è considerata come un’esperienza malata («Tu ignori questo male che s’apprende / in noi», vv. 314-315), di cui la signorina Felicita potrebbe rappresentare l’antitodo o la cura, essendone rimasta perfettamente immune («Mi piaci. Penso che leggendo questi / miei versi tuoi, non mi comprenderesti, / ed a me piace chi non mi comprende» vv. 317-319).

La settima parte si apre con un dialogo tra Gozzano e il farmacista. Sono proprio i pettegolezzi malevoli di quest’ultimo a far prendere al poeta la decisione di lasciare Felicita, troncando una relazione che non può avere nessun sviluppo reale. Uscito dalla farmacia il poeta vaga assorto nella notte di plenilunio. Giunge al camposanto e interroga i morti chiedendo (chiedendosi) se davvero valga la pena di guarire e di vivere.

Nell’ottava parte siamo alla fine di settembre («La morte dell’estate»). Il poeta fa osservare a Felicita la coincidenza tra la propria partenza e quella delle rondini (v. 393). Risponde poi alla domanda di lei circa la propria meta in modo sfuggente: l’«altro viaggio» che egli intende sfuggire con la partenza verso le Canarie è infatti la morte, minacciata dalla malattia.
I due giovani si separano con la vaga promessa di matrimonio («Giurasti e disegnasti una ghirlanda / sul muro, di viole e di saette, / coi nomi e con la data memoranda: / trenta settembre novecentosette…» vv. 405-408), attardandosi ad osservare le rondini, quasi ad allontanare l’addio. Ma «Giunse il distacco» dice il poeta «amaro senza fine». Infine conclude il poemetto con un verso che ne compendia il significato di sogno a occhi aperti «Quello che fingo d’essere e non sono!».

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