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Le donne durante il fascismo e la guerra

Le donne durante il fascismo e la guerra: per capire quale è stato il ruolo della donna durante il ventennio fascista e la Seconda guerra mondiale

Il fascismo assunse verso le donne un duplice atteggiamento: da una parte accentuò la ghetizzazione della donna («le donne a casa»), dall’altra la invitò alla partecipazione. Rilanciò quindi le ideologie arcaiche e rurali della madre, della massaia e dell’infermiera, trasformando tuttavia il tradizionale ruolo domestico della donna in alta missione patriottica.

Al fascismo infatti non piaceva che le donne lavorassero: il loro vero compito era quello di spose e di madri e il loro vero posto era restare all’interno delle mura di casa. La donna fu istruita nell’economia domestica, nell’educazione dell’infanzia, nell’assistenza sociale, fu educata alla salute e a una sana maternità attraverso l’introduzione dell’educazione fisica  e dello sport femminile.

Mussolini cercò, in particolare, il sostegno delle donne nella politica demografica e, lanciando il mito della fecondità e della sanità della razza, accentuò la valenza patriottica del ruolo materno in funzione dell’espansione imperialistica, dandole così l’illusione dell’appartenenza attiva alla nazione, ma nel contempo frustrò decisamente ogni aspirazione alla loro autonomia (una donna su quattro era analfabeta; molte ragazze borghesi aspiravano alla laurea, ma ciò non era visto di buon occhio).

La donna esisteva solo strumentalmente in funzione del maschio e mentre lusingava le sue aspirazioni a una maggiore partecipazione sociale, la inchiodava ai ruoli tradizionali.

Per una donna, il grande obiettivo da realizzare nella vita era il matrimonio. Se non ci si riusciva entro i venticinque anni diventava “zitella”, un personaggio imbarazzante del quale si  parlava a bassa voce o ridacchiando. Sposarsi non era facilissimo. Oltre a un bell’aspetto e a un carattere docile, bisognava avere una buona dote e un buon corredo. Gli uomini perdevano la testa per le “donne fatali” – attrici, cantanti e componenti dell’alta società – ma sposavano le donne “acqua e sapone“. Le donne che si depilavano, si mettevano il rossetto, si laccavano le unghie, si ossigenavano i capelli venivano evitate dai benpensanti. Erano comunque un’esigua minoranza e avevano scarse possibilità di sposarsi.

Il matrimonio, secondo le regole del fascismo, doveva essere coronato da molti figli: quattro era un numero giudicato a malapena sufficiente. Il parto avveniva in casa; si andava in ospedale solo quando il medico curante segnalava un grave pericolo per la madre o per il nascituro. In queste condizioni, molti bambini morivano durante il parto o entro il primo anno di vita.

Il 10 giugno 1940, Mussolini annunciò che l’Italia era entrata in guerra contro la Francia e la Gran Bretagna. La Seconda guerra mondiale entrò nelle case e trasformò città e villaggi in uno sterminato campo di battaglia. La fame e i bombardamenti spinsero le donne fuori di casa, le obbligarono a cercare un lavoro, a prendere le decisioni, ad aiutare coloro che sparavano o a sparare loro stesse; insomma le obbligarono a uscire dal ruolo che era stato loro affidato dal fascismo di “moglie e madre esemplare”.

In marzo 1941, le donne cominciarono a essere assunte come tranviere, postine o impiegate. A tutte veniva fatto un “contratto a termine” che sarebbe scaduto automaticamente appena la guerra fosse finita e gli uomini fossero ritornati a casa. Poi iniziarono le assunzioni alla Fiat e via via in tutte le fabbriche belliche e civili. Le donne provarono per la prima volta l’ebbrezza di avere un po’ di denaro proprio da spendere senza essere obbligate a chiederlo al padre o al marito.

Cominciarono i razionamenti: prima fu razionata la carne, poi la pasta e infine il pane. Le donne diedero allora inizio al commercio clandestino dei beni di prima necessità. I viveri arrivavano dalla campagna portati dalle contadine che entravano in città superando i controlli con ogni genere di trucchi; oppure erano le cittadine che, a turno, andavano in campagna a fare provviste.

La ricerca del cibo divenne il pensiero ossessivo e la principale attività delle donne. Quando si veniva a sapere che qualcuno aveva i magazzini pieni di viveri, le casalinghe si organizzavano e andavano all’assalto dei forni e delle cantine. Anche questo comportò grandi rischi ed ebbe il suo bilancio di vittime.

Dopo l’8 settembre del 1943, il giorno dell’armistizio, nel Nord le donne delle famiglie antifasciste cominciarono a entrare nella Resistenza. Nel 1944 numerosi prefetti vietarono l’uso della bicicletta agli uomini, ma non alle donne. I partigiani allora le utilizzarono come “staffette“: portavano gli ordini, i manifestini, le armi da un quartiere all’altro delle città o dalle città alle campagne. C’erano anche le ragazze che sparavano. In montagna facevano parte delle brigate partigane impegnate nei combattimenti. Alcune morirono in battaglia, altre vennero catturate vive, torturate e fucilate: come gli uomini.

Poi arrivò il giorno della Liberazione e per le donne iniziò il ritorno al passato. L’Italia uscita dalla guerra tornò a essere bigotta. Man mano che gli uomini rientrarono dal Fronte, le operaie e le impiegate vennero licenziate. Sulle riviste tornarono i consigli alla remissività e alla dolcezza.

Ci vollero molti anni, perché le donne, a livello di massa, assaporassero nuovamente il gusto dell’autonomia (per un approfondimento leggi Il movimento femminista: la battaglia delle donne).

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