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Iconoclasta: lotta contro le immagini sacre

Iconoclasta (dal greco eikón, “immagine” e kláein, “rompere”) sta per “distruttore delle immagini”. Il termine fa riferimento alla grave crisi religiosa che colpì l’Impero bizantino nella prima metà dell’VIII secolo.

Nell’Impero bizantino si sentiva infatti forte il richiamo delle altre grandi religioni rivelate, l’ebraismo e l’islamismo, che proibivano la raffigurazione della divinità, e in questo si allontanavano dalla tradizione greco-romana.

Iconoclasti

Gli iconoclasti, richiamandosi al cristianesimo delle origini, si dichiaravano contrari al culto delle immagini, che – sostenevano – diffondeva l’ignoranza e la superstizione tra il popolo.

Infatti, già quando i primi cristiani cominciarono a decorare i luoghi di culto, sorse il problema della rappresentazione del sacro; sin dai primi secoli, si sviluppò un dibattito sulla liceità o meno della raffigurazione di Gesù, della Madonna e di altre figure religiose. I teologi favorevoli alla venerazione delle immagini la giustificavano in base all’incarnazione di Cristo, che rendeva possibile la sua rappresentazione visibile.

Tuttavia nella Chiesa d’Oriente le immagini finirono per non avere soltanto una funzione decorativa, ma diventarono il centro della vita liturgica; con il tempo, inoltre, intorno a esse cominciò a svilupparsi un culto simile a una vera e propria idolatria.

Iconoclastia

Così, verso la metà dell’VIII secolo, nell’Impero bizantino nacque un movimento politico-religioso noto come iconoclastia, secondo il quale la venerazione delle icone era da respingere in quanto assimilabile, appunto, all’idolatria.

Lotta iconoclasta e secondo Concilio di Nicea

La controversia acquisì una dimensione politica quando salì al trono Leone III l’Isaurico. Nel 726 l’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico ordinò quindi la distruzione delle icone, sia perché il loro culto rappresentava un’autentica eresia sia perché risoluto a togliere potere ai monasteri dove si riunivano grandi masse di fedeli per la venerazione.

In Occidente papa Gregorio II, appoggiato dai vescovi, si oppose con successo al decreto imperiale e sostenne, contro l’imperatore, l’iconodulia (dal greco, il culto delle immagini sacre).

Per porre fine alla lotta iconoclasta si promosse il secondo Concilio di Nicea (il VII Concilio ecumenico). Si tennero otto sessioni (di cui l’ultima a Costantinopoli), dal 24 settembre al 23 ottobre 787, con la partecipazione di circa 350 vescovi.

Il secondo Concilio di Nicea (il primo Concilio di Nicea si era tenuto nel 325) sancì la netta differenza tra “venerazione” delle immagini – ammessa – e “adorazione” – inammisibile perché solo Dio può essere adorato.

Il Concilio chiarì inoltre che nelle immagini si venerano «le persone rappresentate» e non «le icone materiali» in quanto tali.

Lotta iconoclasta e protestantesimo

Nel XVI secolo, con l’avvento del protestantesimo, la lotta iconoclasta riprese vigore.
Molti capi protestanti incoraggiarono la distruzione delle immagini religiose, in sintonia con quanto avvenuto secoli prima, ritenendole un’espressone pagana della fede. Oggetto di queste distruzioni furono non solo le statue e i dipinti di Cristo, della Madonna e dei Santi, ma anche le reliquie. In alcuni casi la furia distruttrice coinvolse numerose chiese.

Ancora oggi gli edifici protestanti si caratterizzano per il fatto di avere pareti spoglie e per gli interni austeri. In essi infatti trionfa l’aniconismo (cioè l’assenza di icone) in opposizione all’abitudine cattolica, ritenuta idolatra, di addobbare le chiese con dipinti, statue, vetrate colorate.

In polemica con l’aniconismo, il Concilio di Trento codificò le caratteristiche dell’arte sacra. Questa doveva illustrare con fedeltà i testi sacri, essere di chiara lettura, non contenere oscenità, essere posta sotto il controllo dell’autorità religiosa.

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