Medici e medicina dell’antica Roma: come si curavano gli antichi Romani? Quali erano le malattie più diffuse? Perché solo i ricchi potevano permettersi un medico?
Per secoli i Romani non avevano avuto medici: le malattie erano viste come una punizione divina, cui si potevano contrapporre solo preghiere e sacrifici.
La presenza di numerose malattie – soprattutto a carico dell’apparato respiratorio e gastrointestinale, a cui si univano malattie reumatiche, oftalmiche e della pelle – erano favorite dalle cattive condizioni igieniche. Nelle abitazioni private non esistevano né gabinetti né acqua corrente; i liquami venivano scaricati nelle strade e venivano convogliati nelle fogne mediante canali di scolo a cielo aperto.
Malattie come il morbillo, la peste, il vaiolo assumevano periodicamente carattere epidemico e falcidiavano la popolazione. L’ignoranza delle loro cause e dei meccanismi del contagio precludeva terapie efficaci.
Secondo quanto racconta il naturalista Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) a Roma – fin quando non giunsero medici provenienti dalla Grecia e, in misura minore, dalla Palestina e dall’Egitto – non c’erano dei veri e propri medici e le malattie erano curate in modo, per così dire, «casalingo» da guaritori autodidatti o che avevano imparato il mestiere seguendo qualcuno più esperto.
Non c’erano «ospedali» se non quelli allestiti in occasione delle battaglie per curare i soldati feriti. Non c’era neanche un’autorità preposta alla vigilanza per lo svolgimento delle attività mediche e per questo non era raro che truffatori e imbroglioni speculassero sulle sofferenze della gente.
La mancanza di persone serie e preparate, specializzate nella cura di malattie e pazienti, era dunque molto avvertita e perciò Giulio Cesare incentivò il trasferimento dei medici nella capitale dell’Impero, concedendo loro la cittadinanza ed elargendo importanti privilegi.
Altri imperatori promossero poi esenzioni dalle tasse e da altri obblighi pubblici per favorire la pratica medica. Nonostante questo, le prestazioni dei medici non erano gratuite e quelle dei più bravi erano molto costose: così, la maggior parte della popolazione continuò a rivolgersi a semplici guaritori.
Tra il I secolo a.C. e il III secolo d.C. furono attivi a Roma eccellenti studiosi di medicina che diedero grande impulso allo sviluppo dell’arte medica: l’enciclopedista Aulo Cornelio Celso (14 a.C. circa – 37 d.C. circa) scrisse durante il regno di Tiberio un’opera monumentale, il cui unico volume superstite è il De medicina, una delle fonti principali da cui traiamo tutto ciò che sappiamo della chirurgia (soprattutto odontoiatrica), della farmacia (medicamenti e ricette) e della dieta che erano, secondo Celso, alla base della medicina praticata nel mondo greco-romano.
Dall’Asia Minore giunse invece Dioscoride Pedanio (40 – 90 d.C. circa), medico erborista e botanico, che sotto Nerone scrisse la sua opera più importante, il De materia medica, in 5 volumi, tradotta poi anche in arabo e in indiano e rimasta alla base della farmacologia europea fino al primo Ottocento.
Da Pergamo, nell’odierna Turchia, arrivò il medico più importante di tutta la storia romana, Claudio Galeno (129 – 201 d.C.). Egli fu medico di corte dell’imperatore Marco Aurelio e poi anche di Settimio Severo. A Galeno si deve la comprensione dell’importanza degli organi interni del corpo umano e del ruolo svolto da alcuni di essi (per i suoi esperimenti utilizzò moltissimo la dissezione degli animali).
La migliore arma che i Romani ebbero per tutelare la loro salute fu l’acqua, che arrivava continua e abbondante nelle città romane grazie agli acquedotti, veri capolavori d’ingegneria idraulica, che alimentavano le fontane pubbliche, le case dei ricchi (domus) e le terme.