Le opere retoriche di Cicerone: De inventione, De oratore, Brutus, Orator, Partitiones oratoriae, De optimo genere oratorum, Topica. Riassunto di Letteratura latina.
Le opere retoriche di Cicerone: De inventione
De inventione è la prima opera retorica di Cicerone, composta intorno all’85 a.C. e interrotta al secondo libro. Cicerone sicuramente prese spunto dalla Rhetorica ad Herennium, la prima opera di retorica composta a Roma tra gli anni 88 e 82 a.C. Un tempo quest’opera fu erroneamente attribuita a Cicerone, oggi invece quasi tutti gli studiosi ritengono che l’autore sia Cornificio, un retore vissuto nel I secolo a.C.
Il De inventione è importante perché per la prima volta Cicerone teorizza la necessità che, nel processo formativo dell’oratore, la retorica non sia disgiunta dalla filosofia. Infatti egli afferma che l’eloquentia priva di sapientia espone il popolo ad essere oggetto di demagoghi furbi e senza scrupoli.
Le opere retoriche di Cicerone: De oratore
De oratore è l’opera retorica più importante di Cicerone. Scritto tra il 55 e il 54 a.C., è diviso in tre libri e ha la forma di un dialogo ambientato nella villa tuscolana dell’oratore Lucio Licinio Crasso.
L’opera è dedicata al fratello di Cicerone, Quinto, ed è incentrata su una discussione sulle caratteristiche del perfetto oratore e sulle fasi attraverso cui si costruisce un’orazione.
Prendono parte alla discussione, che si immagina avvenuta nel 91 a.C., oltre a Lucio Licinio Crasso, Marco Antonio, uno dei maestri di eloquenza di Cicerone, gli oratori Aurelio Cotta e Sulpicio Rufo, il giurista Mucio Scevola l’Augure, Quinto Lutazio Catulo, politico e letterato, e Giulio Cesare Strabone, poeta tragico.
Nel primo libro, Crasso, che funge anche da portavoce delle idee di Cicerone, espone la sua teoria secondo la quale per essere un grande oratore sia indispensabile il possesso di un’ampia cultura politica, filosofica e giuridica. Antonio ribatte alle affermazioni di Crasso e parla della difficoltà di acquisire tante nozioni, tra l’altro di scarsa utilità nelle assemblee infuocate e nei tribunali; si mostra più favorevole a un tipo di oratore più istintivo, che si affida per lo più alle proprie doti naturali. Riprende la parola Crasso, che si sofferma sulle doti che deve avere un buon oratore: una naturale predisposizione, un’intelligenza viva, una memoria tenace, una grande passione per l’eloquenza.
Nel secondo libro, Antonio prende in esame l’inventio, la dispositio e la memoria, secondo lui le parti più importanti di un’orazione. Più che la cultura – sostiene Antonio – serve la pratica del foro e l’imitazione dei modelli. Cesare Strabone, invece, parla di come le battute argute e di spirito, mettendo in ridicolo gli avversari, si rivelano tante volte straordinariamente efficaci.
Nel terzo libro, Lucio Licinio Crasso risponde alle teorie elaborate da Antonio. Un buon oratore deve osservare tutti i canoni dell’oratoria, compreso l’elocutio (lo stile) e l’actio (la dizione, il tono della voce e i gesti).
Le opere retoriche di Cicerone: Brutus
Brutus, composto nel 46 a.C., ha anch’esso la forma di un dialogo, ambientato nella villa tuscolana di Cicerone. Gli interlocutori sono Cicerone, Tito Pomponio Attico e Marco Giunio Bruto, il futuro cesaricida, a cui l’opera è dedicata.
Dopo un commosso ricordo di Quinto Ortensio Ortalo, il grande oratore morto qualche anno prima, nel 50 a.C., Cicerone traccia una breve storia dell’oratoria greca e poi passa in rassegna gli oratori romani, dai tempi remoti degli inizi della repubblica all’epoca a lui contemporanea. Sono citati circa duecento oratori, di cui si prendono in esame le caratteristiche più importanti.
Cicerone sviluppa poi una polemica nei confronti dei neoattici: è stato rimproverato da essi di non aver saputo allontanarsi dagli schemi oratori dell’asianesimo; Cicerone, invece, li rimprovera di essersi fermati a Lisia e di non aver saputo apprezzare la grande oratoria di Demostene che, della corrente attica, rappresentava la massima espressione: Demostene usava uno stile molteplice e spesso ricercato e complesso per le sue orazioni. E poiché uno degli scopi fondamentali dell’oratoria è quello di convincere l’ascoltatore, la prosa arida e la scialba asciuttezza dei neoattici non può costituire un modello.
Le opere retoriche di Cicerone: Orator
Orator è un trattato scritto nel 46 a.C. e dedicato a Marco Giunio Bruto. Si compone di due parti: i capitoli 1-43, che riprendono i temi del De oratore, e i capitoli 44-71, in cui Cicerone affronta il tema della prosa ritmica.
Scopo di quest’opera è delineare il modello del perfetto oratore, che deve saper probare (cioè supportare le sue tesi con valide argomentazioni), delectare (far nascere in chi l’ascolta una piacevole impressione), flectere (persuadere gli ascoltatori facendo leva sulle loro emozioni).
Ad ognuno di questi fini deve corrispondere un particolare registro linguistico: l’umile (subtile) per il probare, il medio (medium) per il delectare e l’elevato o patetico (amplum) per il flectere. È ovvio che il perfetto oratore deve saper conformare, all’interno dell’orazione, i tre stili. Maestro, ribadisce Cicerone, fu il grande Demostene.
Al fine di conseguire tali risultati, l’oratore deve essere padrone della lingua, il che significa conoscere la struttura della parola, costruire un simmetrico ordine delle proposizioni nel periodo, conoscere i problemi del ritmo e delle clausole metriche.
Di minore importanza sono:
- le Partitiones oratoriae, del 54 a.C. Sono un compendio di retorica scritto da Cicerone per il figlio Marco, impostato sull’alternanza di domande e risposte;
- il De optimo genere oratorum, del 52 a.C. Si tratta di un’introduzione alla traduzione latina di due celebri orazioni: Per la corona di Demostene e Contro Ctesifonte di Eschine. Non si sa se Cicerone le abbia tradotte veramente. Scopo di quest’opera era quello di dimostrare, in polemica con gli attici, che non Lisa, ma Demostene era stato il più grande oratore.
- Topica, del 44 a.C. Illustra i “luoghi comuni” (in greco tòpoi), che possono essere usati in particolari circostanze dall’oratore.