La Poetica di Aristotele è il primo trattato di critica sulle norme letterarie. Per lungo tempo rappresenterà in Occidente un punto di confronto imprescindibile nella creazione poetica.
Di quanti libri si compone?
La Poetica aristotelica non ci è giunta completa. Dei due libri progettati dal grande filosofo Aristotele, per definire e analizzare i generi letterari, solo il primo, in cui si tratta della tragedia – intesa come l’opera letteraria in cui si narrano fatti e azioni sublimi, con eroi come protagonisti – è giunto fino a noi. Il secondo libro, dedicato alla commedia, intesa come rappresentazione di azioni e fatti che hanno per protagonisti uomini non nobili, e una materia non sublime, non è mai stato ritrovato (Umberto Eco ha posto al centro del suo romanzo Il nome della rosa, 1980, proprio il “giallo” legato alla sua scoperta).
Di cosa tratta la Poetica di Aristotele?
Nella Poetica Aristotele definisce la materia, le regole stilistiche e di costruzione e il fine del genere letterario “alto” partendo dalla definizione di due principi fondamentali a cui la tragedia deve rispondere: quello della verosimiglianza (le vicende narrate non devono essere reali e storiche, ma devono essere credibili e verosimili, ovvero seguire le leggi universali che regolano la realtà umana); e quello della necessità (i fatti devono essere legati l’uno all’altro in maniera razionale, secondo la logica di successione necessaria, basata sul principio di causa-effetto).
Per rispondere a questi requisiti dal punto di vista stilistico, la tragedia dovrebbe rispettare, secondo Aristotele, il criterio fondamentale dell’unità di azione: ovvero l’azione dovrebbe svolgersi nell’arco di un’unica giornata e rappresentare lo sviluppo di un’unica vicenda, dagli esordi, seguendo un arco di crescente tensione, fino allo scioglimento finale (come esempio di tragedia perfetta da questo punto di vista il filosofo Aristotele cita l’Edipo re di Sofocle).
Queste norme, in particolare, furono recepite e interpretate dai teorici e dagli autori europei (fra essi anche quelli del Cinquecento italiano) come rigide regole prescrittive, unite sotto il termine «unità aristoteliche», distinte in unità di azione, di luogo e di tempo.
Il rispetto di questo principio è stato a lungo, almeno fino all’Ottocento romantico, uno dei criteri principali e più discussi, nella valutazione delle opere letterarie, a cui si adeguava la maggior parte degli autori tragici (anche se con alcune importanti eccezioni, come ad esempio quella di William Shakespeare).
La funzione catartica della tragedia secondo Aristotele
Il fine di una tragedia così concepita sarebbe, secondo Aristotele, la purificazione delle anime degli spettatori dalle passioni, negative o travolgenti, che vengono messe in scena, attraverso un’identificazione partecipe con le vicende dell’eroe. Mentre assiste alla rappresentazione, infatti, lo spettatore è portato a provare pietà per l’eroe colpito da mali apparentemente ingiustificati, provando al contempo il terrore di essere egli stesso oggetto di simili immotivate sventure. Quando però, alla fine, tutto rientra in un ordine e trova una spiegazione razionale, il terrore viene esorcizzato. Per il filosofo greco dunque la tragedia è «imitazione di un’azione nobile e compiuta (…), la quale per mezzo della pietà e del terrore finisce per effettuare la purificazione di cosiffatte passioni» (Libro IV).
Tale effetto della tragedia sui sentimenti degli spettatori viene definita a partire dalla Poetica con il termine catarsi, ovvero “liberazione attraverso una purificazione”.