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Proemio Decameron parafrasi

Ti presentiamo la parafrasi Proemio Decameron di Giovanni Boccaccio, ti sarà utile per capire la spiegazione dell’inizio dell’opera, le caratteristiche dell’opera, il pubblico al quale Boccaccio intende rivolgersi e perché.

Il Proemio si apre innanzitutto con una sezione che presenta il libro e il nome e fa un richiamo letterario (“Principe galeotto”) al famoso passo del quinto canto dell’Inferno di Dante, dove i due celebri innamorati Paolo e Francesca sono condannati a scontare la loro pena e Francesca termina il suo racconto con il celebre verso:”Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse“.

Proemio Decameron parafrasi

Comincia il libro.
Nome: Decamerone
Cognominata (ossia sottotitolata): Principe Galeotto
Qui ci sono cento storie in dieci giornate dette da sette ragazze e da tre giovanotti.

Proemio Decameron parafrasi

È cosa umana avere compassione degli afflitti, e se ciò vale per ciascuno di noi, figuriamoci per quelli che, bisognosi di conforto, l’hanno trovato: vorrà dire che a loro volta si prodigheranno senza risparmiarsi quando gli verrà richiesto; e se mai c’è stato uno che avendone bisogno l’ha poi ricevuto, quello sono proprio io. Perché dalla mia adolescenza a ora sono stato in balìa di un amore tale che, se lo narrassi, apparirebbe forse ben più nobile di quanto la mia infima persona non lascerebbe pensare.

Sebbene chi ne venne a conoscenza mi lodasse per la mia forza d’animo e accrescesse la sua stima per me, tuttavia tollerarlo fu una fatica ingrata. Intendiamoci, mica per crudeltà della donna che amavo, ma per l’eccessiva passione amorosa fatta nascere nel mio animo da un desiderio poco regolato: questo amore, poiché non mi permetteva di accettare alcun opportuno limite, spesso mi provocava più dolore di quanto fosse necessario. In quello stato di abbattimento esaltato, qualche amico mi procurò non poco sollievo con i suoi discorsi caritatevoli per sdrammatizzare e consolarmi, tanto che sono fermamente convinto di non essere morto proprio grazie ai conforti avuti dall’amico.

Ma siccome Egli (Dio), essendo infinito, ha ritenuto opportuno sottoporre le cose terrene alla legge immutabile che decreta una fine per tutto, anche il mio amore, intrepido quanto altri mai, che né forza di volontà né buon senso né l’evidente vergogna, visto il pericolo a cui avrebbe potuto espormi, aveva potuto rompere o piegare, questo mio immenso amore è venuto meno, da solo, con il passare del tempo.

Però, al presente, mi ha lasciato quel piacere che di solito è pronto a offrire a coloro che non s’imbarcano nelle acque più cupe senza tenere un occhio al timone e, mentre prima mi opprimeva, adesso, portatosi via ogni affanno, è rimasto in me un sentimento gradevole. Ma anche se la pena è finita, non per questo ho perso memoria dei benefici ricevuti da coloro che per benevolenza hanno fatto proprie le mie pene, memoria che solo la morte può cancellare.

Sono convinto che, fra le altre virtù, la gratitudine meriti un encomio particolare e il suo opposto un biasimo non inferiore e, per non fare brutta figura, adesso che mi sono liberato intendo ricambiare, per quel po’ che posso, quanto ho ricevuto. E se non proprio a sollievo di quanti mi diedero una mano – i quali vuoi per puro caso, vuoi perché hanno la testa sulle spalle, vuoi perché per fortuna non ne hanno bisogno – almeno a sollievo di quelli a cui può essere utile. E per quanto il mio sostegno, o conforto che dir si voglia, certamente sia ben poca cosa per i veri bisognosi, mi sembra tuttavia che esso debba accorrere soprattutto là dove se ne ha più bisogno, sia perché sarà più utile sia perché risulterà più gradito.

E chi negherà che questo conforto, per piccolo che sia, non convenga donarlo alle leggiadre donne molto più che agli uomini? Esse, dentro i petti, delicati, fra timori e rossori, reprimono le fiamme che l’amore dispiega per erompere e trascinare via con sé – lo sapete ben voi che lo avete provato e che lo state provando, no? E se ciò non bastasse, le donne, subordinate ai voleri, ai piaceri, agli ordini di padri, madri, fratelli e mariti, devono far passare il tempo rinchiuse nell’angusta cella dei loro tinelli, e stando sedute con le mani in mano, volendo e non volendo, richiamano fra sé e sé i più disparati pensieri, certo non sempre allegri.

E se a forza di rimuginare sopravviene quella certa malinconia provocata da un ardente desiderio, è inevitabile che in quelle camere le donne stiano con grande sofferenza, se tale sofferenza non è scacciata da nuovi discorsi. Le donne sono molto meno equipaggiate dei maschi a far fronte alle calamità del cuore, come tutti possiamo facilmente constatare. I maschi, se sono afflitti da pensieri malinconici o tormentosi, hanno tanto di quei modi in più per buttarseli dietro le spalle, dato che possono sentirne e vederne a piacere di tutti i colori, andare in giro, cacciare uccelli, cinghiali, pesci, andare a cavallo, giocare d’azzardo o occuparsi di commerci, distrazioni grazie alle quali chiunque può, in parte o del tutto, distrarsi da ogni pensiero fisso almeno per un po’, dopo di che l’uomo ci metterà una pietra sopra.

Perciò, affinché da parte mia, almeno parzialmente, venga posto rimedio al torto fatto alle donne dalla fortuna, la quale fu più avara di sostegno dove c’era meno forza – come possiamo ben vedere nelle signore, così vulnerabili – io intendo raccontare, a sostegno e rifugio di quelle che amano, e non tanto di quelle tutte ago, filo e tamburello, cento storie o favole o parabole che dir si voglia, raccontate in dieci giorni da una scelta brigata di sette ragazze e di tre giovanotti costituitasi durante l’appena passata epidemia di peste (la peste del 1348).

In questi racconti ci imbatteremo in casi d’amore un po’ piacevoli e un po’ no e in numerosi e burrascosi fatti di cronaca d’attualità e non, e le signore che li leggeranno potranno ricavare al tempo stesso piacere dalle cose divertenti in essi narrati e l’utilità di un saggio consiglio, perché sapranno distinguere ciò che va evitato da ciò che va perseguito. Se ciò avverrà, e voglia Iddio che sia così, c’è da dire grazie solo all’Amore, donne, che liberandomi dalle sue catene mi ha concesso di potermi occupare dei loro piaceri.

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