Promessi Sposi capitolo 19 Riassunto dettagliato, analisi e commento degli avvenimenti, luoghi e personaggi del celebre romanzo di Alessandro Manzoni
Promessi Sposi capitolo 19 Riassunto: il conte zio invita a pranzo il padre provinciale dei Cappuccini; ottiene che padre Cristoforo venga allontanato da Pescarenico: andrà a Rimini, dove è richiesto un predicatore
Il conte zio organizza un banchetto in onore del padre provinciale dei Capuccini e la scena ricorda il banchetto tenutosi al palazzo di don Rodrigo. Entrambi mettono insieme un vario assortimento di commensali: autorità, parenti, clienti. Senonché, in questo capitolo, la situazione appare rovesciata. Infatti, in casa di don Rodrigo il Cappuccino (padre Cristoforo) capita inaspettato, assiste alla fine del banchetto restio ad accettare qualcosa e a prendere parte alla conversazione, in attesa paziente del colloquio che egli sollecita, per chiedere a quel signorotto un’opera di giustizia.
Al contrario, in casa del conte zio, il padre provinciale è l’invitato in funzione del quale è stato dato il pranzo e il colloquio è richiesto a lui da parte del padrone di casa, per spingerlo a compiere un atto ingiusto.
Il padrone di casa non tace, come taceva don Rodrigo, e domina la conversazione, portandola naturalmente «sul tema di Madrid». A sua volta, il padre provinciale non si accontenta di tacere e di ascoltare il padrone di casa: egli, infatti, dopo averlo lasciato «dire, dire e dire», ad un certo punto dà «una giratina al discorso», lo stacca da Madrid, e «di corte in corte, di dignità in dignità» lo tira sul cardinale Barberini «ch’era Capuccino, fratello del papa allora sedente, Urbano VIII: niente meno».
Questo ironico «niente meno» vale sia per il padre provinciale che dà la sua stoccata, sia per il conte zio, che ne accusa il colpo ed è costretto, dopo tanto «dire, dire e dire», ad ascoltare un poco «e ricordarsi che finalmente, in questo mondo, non c’era soltanto i personaggi che facevan per lui».
Il conte zio e il padre provinciale si fronteggiano ad armi pari: entrambi potenti, anziani, esperti, astuti, per nulla sprovveduti. Manzoni tiene conto di questa condizione e, per sottolineare il tono confidenziale che il colloquio vorrebbe mantenere, presenta i due protagonisti seduti e non in piedi nel mezzo della sala, come aveva fatto con don Rodrigo e fra Cristoforo nel capitolo 6.
Così, all’impressione di uno scontro violento, si sostituisce quella di una partita giocata a tavolino, in cui ciascuno studia le mosse dell’altro. Il conte zio fa appello ad una amicizia che rende possibile un compromesso fra due autorità («stante l’amicizia che passa tra di noi… e in due parole son certo che anderemo d’accordo»); isola la figura di padre Cristoforo, mostrando di ritenerla un’eccezione nello stimato ordine dei Cappuccini («…questo soggetto… questo padre… di persona io non lo conosco; e sì che de’ padri Capuccini ne conosco parecchi: uomini d’oro, zelanti, prudenti, umili»); denuncia prima il motivo politico (apparentemente più pericoloso) e solo in un secondo tempo quello familiare (che in realtà gli interessa maggiormente): («questo padre Cristoforo, sappiamo che proteggeva un uomo… che, con tanto scandalo, scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di San Martino, cose… cose… Lorenzo Tramaglino!»); («c’è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo»); insinua in un discorso, in cui si alternano un tacere pieno di sottintesi e frasi dette a metà, la possibilità che il fatto generi complicazioni politiche («… potrebbe esser fatto qualche passo a Roma… non so niente… e da Roma venirle…»); allude all’esistenza di prove certe in suo possesso, ma non le produce («ho de’ riscontri… ho de’ contrassegni»); ricorda la responsabilità di prevenire, che compete ai superiori, per cui anche il solo sospetto può giustificare un intervento («sopire, troncare… troncare, sopire… e tocca a noi che abbiamo i nostri anni…»).
Il padre provinciale risponde con fermezza alle insinuazioni del conte a carico di fra Cristoforo: subito difende la buona fama del frate («il padre Cristoforo… per quanto ne so io, è un religioso esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori»); giustifica, facendosene garante, i rapporti di fra Cristoforo con Renzo («… son certo che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l’uomo che lei dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco»); respinge l’accenno alla vita passata del Cappuccino («e da che il padre Cristoforo porta quest’abito…»).
All’inizio il padre provinciale si incolpa tra sé per aver lasciato troppo a lungo fra Cristoforo in un luogo («colpa mia, lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo fermare mesi in un luogo, specialmente in conventi di campagna»); poi ammette apertamente di aver già avuto «qualche pensiero» su fra Cristoforo, ma si dichiara trattenuto dal timore che il provvedimento, date le circostanze, prenda l’aspetto di una punizione. Continua a mostrarsi esitante, dato che «ognuno ha il suo decoro da conservare»; suggerisce, pertanto, qualche «dimostrazione» da parte di don Rodrigo, «qualche segno palese d’amicizia», sempre «per l’abito», in modo da prevenire le sfavorevoli interpretazioni, le ciarle dei maligni.
Alla fine entrambi concordano sul necessario e immediato trasferimento di fra Cristoforo.
Dal colloquio con il conte zio, il padre provinciale ne esce sconfitto, perché soffoca il suo senso di giustizia e tacita lo spirito cristiano. Cede alle insistenze del conte zio, perché in lui prevale l’opportunismo politico sulla carità e preferisce sacrificare un confratello suo subordinato (padre Cristoforo, che conosce e stima), piuttosto che mettere in pericolo i buoni rapporti con una potente autorità laica.
Per una certa somiglianza si potrebbe pensare, a proposito del padre provinciale, al padre guardiano della biografia di Lodovico, uomo anche lui dai molti interessi da salvare. Ma la diplomazia del guardiano, forse perché si muove in un ambito giurisdizionale più ristretto, esce vittoriosa e con piena soddisfazione di tutti. Il padre provinciale, invece, a cui spetta il difficile compito di conciliare due virtù non facili da mettere insieme (prudenza e fortezza), esce sconfitto e diventa fautore di ingiustizia e causa lacrime per altri.
Egli non si salva da una condanna, soprattutto nel paragone sottinteso con la figura lontana ma idealmente presente di fra Cristoforo: anche questi, nel colloquio con don Rodrigo, esce sconfitto, ma la sconfitta di fra Cristoforo si riferisce ad una richiesta di giustizia da lui avanzata e che non gli è concessa, mentre la sconfitta del padre provinciale riguarda una richiesta ingiusta a lui rivolta e che da lui viene accordata.
Promessi Sposi capitolo 19 Riassunto: Fra Cristoforo riceve l’odine, raccoglie le sue cose e parte
La scena del congedo di fra Cristoforo dal convento di Pescarenico è brevissima e quasi senza parole: padre Cristoforo obbedisce all’ordine; affida alla Provvidenza Renzo, Lucia e Agnese ed esce di scena.
Per l’intera durata del romanzo vediamo padre Cristoforo agire in non più di nove capitoli. Eppure il libro è pieno di lui e non lascia l’impressione di una fugace apparizione; è una presenza familiare; un punto di riferimento costante nelle parole dei personaggi; oggetto di amore e di odio; campione della giustizia e vittima dell’ingiustizia; è l’anima segreta di questo capitolo.
Promessi Sposi capitolo 19 Riassunto: notizie dell’Innominato. Don Rodrigo si mette in viaggio per chiedergli aiuto
Le ultime pagine del capitolo sono dedicate all’Innominato. Per questo personaggio, come già si è visto a proposito della monaca di Monza, Manzoni si è documentato dalle cronache del tempo, attingendo soprattutto alle opere dei due storici maggiori: Francesco Rivola e Giuseppe Ripamonti.
Il personaggio dell’Innominato può essere identificato con Francesco Bernardino Visconti, feudatario di Brignano Ghiara D’Adda, bandito nel 1603 dal governatore di Milano per la sua condotta scellerata. Fu al centro di una conversione che suscitò meraviglia fra i contemporanei.
L’Innominato è un potente tiranno, uno spirito ribelle. Il suo castello è simile ad una fortezza inespugnabile, la sua servitù un’accozzaglia di malvagi. Al confronto don Rodrigo appare proprio un tirannello. L’Innominato, invece, è un grande malvagio e la sua iniquità è frutto di una scelta.
Un aneddoto, che Manzoni dichiara raccontato dal Ripamonti, dà la misura del carattere dell’Innominato: una volta in cui dovette allontanarsi dal ducato perché messo al bando, se ne andò in pompa magna, con chiasso e una processione di bravi e servitù, pregando la guardia del palazzo di riferire al governatore un messaggio impertinente da parte sua. Ritornato dall’esilio si stabilisce in un castello ai confini col territorio bergamasco, da dove domina come un vero e proprio genio del male. Persino l’Anonimo, autore (finto) del manoscritto (finto), lo teme e perciò non lo nomina nella sua storia: ecco il motivo per cui anche Manzoni, persistendo nell’ingegnosa finzione, manterrà per tutto il romanzo, il prudenziale appellativo di “Innominato”.
Don Rodrigo, il cui palazzotto dista circa sette miglia dal castello dell’Innominato, appartiene a quella cerchia di signorotti di campagna, che hanno stabilito buoni rapporti con il potente feudatario. Qualche volta ha anche dovuto rendergli dei servizi e si è acquistato qualche credito presso di lui, da mettere in campo per farsi aiutare all’occorrenza. A lui decide di rivolgersi per stanare Lucia dal suo sicuro rifugio anche se, a dire il vero, don Rodrigo non ama rivelare questa sua collaborazione con il celeberrimo malvagio; non vuole mettere a repentaglio la protezione del conte zio, la buona accoglienza dei «salotti» di Milano, mostrando la connivenza con quel personaggio paragonabile, ai giorni nostri, a un capomafia.