Prose della volgar lingua sono un trattato in volgare in tre libri, in forma dialogica così come Gli Asolani.
Pietro Bembo elaborò i primi due libri fra il 1512 e il 1513. Solo fra il 1519 e il 1524 Bembo completò l’opera, pubblicandola nel 1525.
Il dialogo si immagina svolto a Venezia nel 1502, in casa del fratello del Bembo, Carlo, fra lo stesso Carlo (che esprime le idee dello scrittore) e vari interlocutori: Giuliano de’ Medici (figlio di Lorenzo il Magnifico), Federigo Fregoso (poi cardinale) e l’umanista ferrarese Ercole Strozzi. Le loro funzioni nel dialogo dipendono dalla lora reale esperienza umana. Carlo sostiene le tesi sulla lingua di Pietro, suo fratello; Giuliano de’ Medici, che aveva retto come principe le sorti di Firenze, si batte invece per il primato del fiorentino allora in uso; Fregoso, studioso del volgare letterario delle origini, affronta la questione storica della tradizione del volgare; Strozzi, l’umanista, difende l’uso del latino.
Il primo libro affronta anzitutto il problema se si debba usare il latino o il volgare. Scelta questa seconda soluzione, resta aperta la questione di quale volgare usare, e Giuliano de’ Medici sostiene che debba essere preferito il fiorentino allora in uso (era questa la tesi anche di Machiavelli). Secondo Giuliano ispirarsi a una lingua ormai morta significava rivolgersi ai morti, non ai vivi. Carlo ribatte che, per secoli, Cicerone e Virgilio sono stati presi a modello da chi scriveva in latino. In modo analogo Petrarca e Boccaccio possono essere assunti come modelli di una letteratura viva, anche se intesa da pochi. D’altronde a occuparsi di letteratura è sempre stata una cerchia ristretta, ed è solo per essa che gli scrittori concepiscono le loro opere.
Nel secondo libro si considerano le qualità che fanno bella la scrittura, e cioè la piacevolezza e la gravità. Poi si passano in rassegna varie altre questioni: quella del suono, del ritmo, della necessità di ricorrere alla variazione per evitare la monotonia.
Il terzo libro contiene la descrizione morfologica del toscano trecentesco. È una vera e propria grammatica, che considera il nome, l’aggettivo, il pronome, il verbo e infine il participio. Gli esempi sono tratti soprattutto da Boccaccio e da Petrarca.
Insomma non solo il lessico e lo stile letterario, ma anche la grammatica sono costruiti sul principio di imitazione.