Ascolta “Dante Alighieri – La Divina Commedia – Canto 6 Purgatorio” su Spreaker.
Nel Canto 6 Purgatorio della Divina Commedia di Dante Alighieri ci troviamo nel secondo balzo dell’Antipurgatorio, la parte bassa della montagna del Purgatorio. Qui si trovano i morti di morte violenta, che si pentirono solo in fin di vita e perdonarono il proprio uccisore. Come i pigri del primo balzo (canto 4 Purgatorio), devono attendere nell’Antipurgatorio un tempo pari alla loro vita prima di salire a purificarsi sulle sette cornici del Purgatorio. Camminano lentamente come in processione, cantando in coro il Miserere.
Nel canto VI Purgatorio la figura centrale è Sordello da Goito, poeta trovatore italiano. L’abbraccio tra Sordello e Virgilio, una volta scoperta la loro comune origine mantovana, diventa l’occasione per la celebre e dolorosa invettiva contro l’Italia dilaniata ovunque da lotte interne. Ma da qui prende lo spunto anche l’aspra polemica contro Impero e Papato, i due massimi poteri universali, e l’amaro sarcasmo con cui Dante si rivolge all’amata e odiata Firenze nella chiusa del canto.
Purgatorio Canto 6: ressa delle anime che invocano suffragi (vv. 1-24)
Dante apre il Canto 6 del Purgatorio con una similitudine tra il vincitore del gioco della zara (cioè il gioco dei dadi), che dona parte della propria vincita alla folla che lo circonda per liberarsene, e se stesso, che ascolta le preghiere delle anime solo per farle allontanare.
Si tratta delle anime di coloro che morirono di morte violenta, ma fecero in tempo a pentirsi dei loro peccati e ora chiedono di portarne notizie ai vivi perché si preghi per essi così da abbreviare il loro periodo di permanenza in Purgatorio.
Tra esse, Dante scorge tutta una serie di personaggi vissuti nella metà del 1200, la cui morte violenta era certamente di dominio pubblico al suo tempo. Si tratta di Benincasa da Laterina, giudice aretino ucciso dal bandito Ghino di Tacco; Guccio dei Tarlati, ghibellino, che morì annegando nell’Arno; il nobile Federigo Novello, ghibellino, morto nella battaglia di Campaldino (1289) cui partecipò anche Dante; il pisano Gano degli Scornigiani, figlio di Marzucco, assassinato per volere del conte Ugolino della Gherardesca; Orso degli Alberti; Pierre de la Brosse, ingiustamene impiccato per tradimento in seguito alle accuse di Maria di Brabante, regina di Francia. Dante rivolgendosi a lei la ammonisce: si penta ed espii, se non vuole essere dannata.
Purgatorio Canto 6: l’efficacia delle preghiere (vv. 25-57)
Ora Dante rivolgendosi a Virgilio esprime un dubbio: le preghiere possono davvero accelerare il cammino verso il Paradiso, oppure no, come lascia intendere Virgilio in un passo del VI libro dell’Eneide, in cui nega esplicitamente che una preghiera possa modificare i decreti degli dèi (allude alla risposta della Sibilla a Palinuro, che l’aveva supplicata di portarlo oltre l’Acheronte, sebbene insepolto).
Virgilio spiega che il giudizio divino non muta anche se l’ardore di carità abbrevia il tempo di espiazione. Nell’Eneide parlava diversamente, perché si trattava di anime pagane.
Virgilio esorta poi Dante ad attendere più profonde spiegazioni da Beatrice, nel Paradiso terrestre, in cima al Purgatorio: essa solo può aprire la mente alle verità rivelate e ai misteri divini.
Al solo nome di Beatrice, Dante riacquista le forze e sente di nuovo il desiderio di affrettare il passo. Ma Virgilio, che ha capito che Dante spera di poter arrivare in cima al Purgatorio quel giorno stesso, precisa che il viaggio durerà ancora qualche giorno.
Canto 6 Purgatorio: Sordello da Goito (vv. 58-75)
Mentre stanno parlando, Virgilio e Dante scorgono un’anima, fiera e in disparte, che sta guardando verso loro. Virgilio le si rivolge per chiedere quale strada prendere per continuare l’ascensione sul monte del Purgatorio. L’anima non risponde ma chiede prima chi sia e dove sia nato. Non appena Virgilio inizia a presentarsi nominando Mantova come città di origine, l’anima, colpita e stupita da quella parola “Mantova”, subito si precipita ad abbracciarlo e si presenta come Sordello, originario della sua stessa terra (per un approfondimento leggi Sordello da Goito, poeta e trovatore italiano).
Purgatorio Canto 6: Compianto sulla condizione dell’Italia e di Firenze (vv. 76-151)
Dante, allo spettacolo di così intenso affetto per la comune patria, prorompe nella famosa invettiva contro l’Italia: «Ahimé Italia schiava («serva») di dolore, nave senza timoniere («nocchiere») in una grande tempesta, non più signora («donna») di province, ma prostituta («bordello»).
Dante qui contrappone il passato imperiale dell’Italia, che sotto Roma era signora di innumerevoli province, a un presente di frammentazione e quindi di degradazione: l’Italia si offre ormai a chi la vuole.
Tutta la penisola è sconvolta da guerre: gli abitanti di una medesima città, che dovrebbero sentirsi uniti e legati a una stessa sorte, sono invece divisi in fazioni che si combattono con odio implacabile.
A che giova che l’imperatore Giustiniano abbia sistemato tutte le leggi nel Corpus iuris civilis, ponendo un limite ai disordini della penisola, se manca un potere centrale.
L’invettiva si rivolge poi agli uomini di Chiesa che si sono appropriati indebitamente del potere temporale, ma non sanno guidare l’Italia e questa è decaduta. Manca l’autorità dell’imperatore, dal momento che Alberto I d’Asburgo, come già suo padre Rodolfo, tutto preso dalle cure del regno di Germania, ha rinunciato all’effettivo esercizio della sua sovranità sulle terre d’Italia e alla difesa dei suoi diritti contro le crescenti usurpazioni dei papi.
Dopo aver invocato una giusta punizione sull’imperatore Alberto e sul suo successore (sarà Arrigo VII di Lussemburgo), Dante lo invita a venire in Italia a vedere le lotte tra le famiglie rivali, gli abusi subiti dai suoi feudatari, Roma che piange e si lamenta per essere stata abbandonata dal suo sovrano, la gente che si odia. E se niente di ciò muove la sua pietà quanto meno venga a vergognarsi del discredito che si è acquistato tra gli Italiani con la sua condotta politica.
Dante si rivolge a Dio stesso, chiedendogli se non ha rivolto altrove il suo sguardo, o forse in tutti questi mali è nascosto il seme di un futuro bene, che però non è ancora comprensibile.
Si rivolge infine a Firenze. Con tono amaramente ironico, il poeta presenta la sua città come se fosse immune da tutti i mali finora elencati. In realtà in essa dominano la superficialità e l’irresponsabilità di cittadini che fanno a gara per avere cariche pubbliche pur non avendo né capacità né preparazione.
Dante contrappone ironicamente le leggi di Atene e Sparta (le costituzioni di Solone e di Licurgo), famose nell’antichità per la loro giustizia e per la loro durata, a quelle fiorentine destinate ad avere brevissimo corso. Firenze ormai è come un malato che si rigira nel letto, cercando inutilmente sollievo.