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Roberto Saviano, la funzione morale e civile della letteratura

Roberto Saviano è nato a Napoli, il 22 settembre 1979. Il suo primo romanzo, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, pubblicato nel 2006, lo ha reso noto non solo in Italia, ma in gran parte del mondo, essendo stato tradotto in 52 Paesi.

Nel suo libro Gomorra Roberto Saviano ha il coraggio di denunciare nomi e fatti della camorra, da cui è stato più volte minacciato di morte (dal 2006 vive infatti sotto scorta).

In questo suo primo romanzo Saviano si rappresenta autobiograficamente nella realtà di un ricercatore precario che si reca in Vespa sui luoghi del crimine napoletano e nel casertano, fra gigantesche discariche di rifiuti, fiumi di cemento, villaggi abusivi, quartieri e periferie degradati in cui si accumulano masse enormi di denaro, di armi e di merci. Per Roberto Saviano infatti lo scrittore deve anzitutto dire la verità, e ciò significa assistere di persona, documentarsi sul posto, compromettersi, esporsi direttamente. E in questo modo la letteratura assume funzione morale e civile.

Roberto Saviano è un giovane delle periferie, parla di sé, denuncia una situazione in cui ha materialmente vissuto. Non diffonde ideologie complessive, visioni del mondo generali, ma è testimone di ciò di cui parla, è un “esperto” della camorra. E proprio in quanto esperto di camorra o di mafia, è intervistato dalla televisione o promosso a protagonista di trasmissioni televisive, diventando noto al grande pubblico.

Tuttavia egli crede ancora alla funzione morale e civile della letteratura e si serve dei suoi scritti per denunciare e scandalizzare e così per influenzare l’opinione pubblica e indurla a prendere posizione contro la camorra, contro la mafia, contro l’illegalità dilagante in Italia.

Questa fiducia nel valore morale e civile della parola induce Saviano a servirsi anche della televisione, come si legge nell’introduzione al suo volume di scritti saggistici La bellezza e l’inferno, della cui introduzione si riportano qui alcune pagine.

Il cinismo che contraddistingue molta parte degli addetti ai lavori lascia intravedere sempre una sorta di diffidenza per tutto quello vuole fare solo un buon libro, costruire una storia, limare le parole sino a ottenere uno stile bello e riconoscibile. È questo ciò che deve fare uno scrittore? Questo e nient’altro è letteratura? Allora, per quanto mi riguarda, preferirei non scrivere né assomigliare a queste persone.
Bisogno di distruggere tutto ciò che può essere desiderio e voglia: questo è il cinismo. Il cinismo è l’armatura dei disperati che non sanno di esserlo. Vedono tutto come una manovra furba per arricchirsi, la pretesa di cambiare come un’ingenuità da apprendisti stregoni e la scrittura che vuole arrivare a molti come una forma di impostura dal ghigno di chi sa già che tutto finirà male nulla può essere tolto, perché non hanno più nulla per cui valga la pena di lottare. Però non possono essere cacciati dalle loro case che sono spesso allestite con gusto, curate. La loro arte, la loro idea della parola, somiglia a quelle case belle e non vuole abbandonare il loro perimetro ben arredato. Ma nel privilegio delle loro vite disilluse e protette, non hanno idea di che cosa possa veramente voler dire scrivere.
[…]
Per me scrivere è sempre stato il contrario di tutto questo. Uscire. Riuscire a scrivere una parola nel mondo, passarla a qualcuno come un biglietto con un’informazione clandestina, uno di  quelli che devi leggere, mandare a memoria e poi distruggere: appallottolandolo, mischiandolo con la tua saliva, facendolo macerare nel tuo stomaco. Scrivere è esistere, è fare resistenza.
[…]
Se ho avuto un sogno, è stato quello di incidere con le mie parole, di dimostrare che la parola letteraria può ancora avere un peso e il potere di cambiare la realtà. Pur con tutto quello che mi è successo, la mia “preghiera”, grazie ai miei lettori, è stata esaudita. Ma sono anche divenuto altro da quel che avevo sempre immaginato. Ed è stato doloroso, difficile da accettare, finché non ho capito che nessuno sceglie il suo destino. Però può sempre scegliere la maniera in cui starci dentro. Per quanto mi riesce, voglio provare a farlo nel migliore dei modi, perché è questo ciò che sento di dovere a tutti coloro che mi hanno sostenuto.
Per questo se mi invitano a parlare in televisione e so che mi ascolteranno in molti, cerco solamente di farlo bene, senza sconti, addolcimenti, semplificazioni.
[…]
Ormai non temo più di servirmi di ogni mezzo – tv, web, radio, musica, cinema, teatro -, perché credo che i media, se usati senza cinismo e senza facile furbizia, siano esattamente quel che significa il loro nome. Mezzi che consentono di rompere una coltre di indifferenza, di amplificare quel che spesso già da loro dovrebbe urlare dal cielo.

Da Roberto Saviano, La Bellezza e l’inferno, Mondadori, Milano, 2009.

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