Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi è la morale di Tancredi Falconeri nel romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958), quando spiega allo zio, il principe Fabrizio Salina, come mai stia per unirsi ai Mille di Garibaldi, sbarcati a Marsala, in Sicilia, nel maggio 1860, ma più per controllare la situazione che per vera convinzione.
Cosa vuol dire Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi?
Tancredi è diventato un rivoluzionario? Crede davvero nel progetto di Garibaldi? Nell’Unità d’Italia? No. Lo dice con una frase che diverrà una delle più celebri della letteratura italiana: «Se non ci siamo anche noi (cioè i nobili) quelli (cioè i garibaldini) ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?».
Ciò che Tancredi, nipote prediletto del principe Fabrizio Salina, vuole dire con questa frase, diventata ormai proverbiale, è che il rischio più grande per i nobili è che la repubblica sostituisca la monarchia: meglio allora che gli aristocratici partecipino alla rivolta contro i Borbone (tutto cambi) e operino perché al loro posto regnino i Savoia (tutto rimanga com’è).
Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi – gattopardismo
Una frase divenuta emblema di quello che si chiama gattopardismo: appoggiare (in apparenza) il cambiamento, le innovazioni ma solo come modo per conservare poteri e privilegi, per perseguire cioè il proprio tornaconto personale.
Ed è così che Tancredi, un giovane lucido e spregiudicato, convinto che se si vuole che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi, non sposerà la cugina Concetta, figlia del principe, ma la bellissima e rozza Angelica, figlia di Calogero Sedara, un plebeo arricchito, un trafficone astuto che ha abbracciato il nuovo regime e spera di poter sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Tancredi, grazie al suocero, dopo essersi legato ai garibaldini, intraprenderà poi una brillante carriera politica.
Qual è la morale del Gattopardo?
Tutto alla fine resterà quindi com’è e com’è stato, perché l’uomo non muterà mai. I borghesi, approfittando della particolare situazione storica, si sostituiranno agli aristocratici ma con il solo obiettivo di arricchirsi, senza apportare nulla di buono e di veramente costruttivo. Così almeno pensa Don Fabrizio Corbera, principe di Salina, che osserva con ironia e distacco quanto sta accadendo e non fa nulla per impedirlo, ma attende senza reagire.
La Sicilia dalla spedizione dei Mille all’Unità d’Italia
Del resto, i fatti storici danno ragione al giudizio storico espresso dal principe. Nel 1860 la spedizione dei Mille, capeggiata da Giuseppe Garibaldi e culminata con la vittoria sui Borboni a Milazzo, porta all’annessione della Sicilia al Piemonte. Nel febbraio 1861 viene proclamato il nuovo Regno d’Italia, con capitale Torino, costituito da Regno di Sardegna, Lombardia, Toscana, Emilia, Umbria, Marche e tutta l’Italia meridionale. Lo Statuto Albertino viene esteso a tutti gli italiani. L’unificazione, però, non porta i vantaggi sperati ai siciliani: Cavour non vara riforme agrarie per redistribuire le terre e non concede forme di autogoverno, impone invece nuove pesanti tasse e la leva obbligatoria. Il governo, inoltre, va in mano a funzionari provenienti dal Piemonte, che si dimostrano impreparati e incapaci nell’amministrazione di una regione a loro sconosciuta per lingua, usi e costumi. In risposta alle speranze deluse si diffondono una profonda sfiducia nei confronti dello Stato e il brigantaggio, che l’esercito reprime violentemente.
Il giudizio storico espresso da Don Fabrizio rispecchia quello dell’autore stesso, il quale, se si considera l’epoca di stesura del romanzo, forse non intende alludere soltanto alla Sicilia, ma all’Italia intera, che appena uscita dal fascismo e dalla Seconda guerra mondiale, sta faticando a dare vita a una vera democrazia.
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